Nel mondo sono già attivi diversi progetti di cattura dell’anidride carbonica che esce dalle ciminiere di impianti industriali o di centrali elettriche che bruciano combustibili fossili. Più rari (perché tecnicamente più complessi) gli esperimenti di sequestro della CO2 direttamente dall’atmosfera, la cosiddetta Ccs (Carbon capture and storage). Tra questi, il caso esemplare (e il più grande nel suo genere) è quello dello stabilimento Orca, in Islanda, che è stato attivato lo scorso settembre e che promette di catturare dall’aria 4000 tonnellate all’anno di CO2, per seppellirle tra le rocce basaltiche del sottosuolo dell’Isola. E in Italia?
Il progetto Eni a Ravenna
L’unico vero progetto industriale italiano è quello dell’Eni a largo della costa romagnola: “La presenza di campi a gas esauriti e asset dismessi nell’offshore di Ravenna ci offre l’opportunità unica di realizzare un grande hub per lo stoccaggio della CO2 proveniente dalle attività produttive della terraferma, come ad esempio le centrali a gas a ciclo combinato di Enipower. Puntiamo a creare uno dei maggiori hub al mondo per lo storage di CO2 nonché il primo nel Mediterraneo”. Nei mesi scorsi la compagnia petrolifera ha cercato di intercettare i fondi europei chiedendo al governo italiano di inserire il progetto nel Pnrr. L’operazione, a cui si sono opposte strenuamente le principali associazioni ambientaliste, non è andata in porto e ora resta da vedere con quali tempi e quali investimenti l’azienda intenderà procedere.
Il “pilota” in un cementificio di Piacenza
A metà tra l’esperimento accademico e il prototipo industriale si colloca l’attività a Piacenza di Leap, società consortile senza fini di lucro di cui fa parte anche il Politecnico di Milano. “Leap coordina il progetto europeo Cleanker con il quale abbiamo realizzato un pilota per la cattura della CO2 durante la produzione del cemento”, spiega Stefano Consonni, docente di Sistemi energetici al PoliMi. L’apparato è stato installato presso il cementificio Buzzi Unicem di Piacenza: “L’obiettivo è testare la validità di un processo che utilizza l’ossido di calcio: lo si fa reagire con i fumi del cementificio, cattura CO2 e forma calcare. In un altro reattore si provoca poi la reazione inversa, liberando CO2 molto concentrata”, racconta Consonni. “Perché l’obiettivo è proprio avere una altissima concentrazione di CO2 da poter poi stoccare sotto terra. Quando esce dalle ciminiere di un cementificio l’anidride carbonica rappresenta il 15-20% dei fumi, noi vogliamo portarla a una concentrazione del 80-90%, che rende il gas adatto allo stoccaggio a lungo termine”.
Naturalmente anche in questo caso occorre un serbatoio sotterraneo o sottomarino dove depositare in modo permanente la CO2. “È per questo che le compagnie del petrolio o del gas hanno un vantaggio, potendo contare su giacimenti esausti in cui pompare l’anidride carbonica catturata”, spiega il professore. “C’è anche chi sta perseguendo la strada della mineralizzazione, cioè l’intrappolamento della CO2 in un materiale solido stabile. Oppure nel riutilizzo industriale, ma dubito che la domanda di CO2 potrà mai smaltire tutta quella che nei prossimi anni dovremo assorbire per limitare la crescita delle temperature”.
Le miniere di carbone del Sulcis
Tra i tentativi di riconversione e del comparto minerario in Sardegna spicca quello di trasformare i vecchi giacimenti ormai improduttivi in un serbatoio per la CO2 catturata. Nel lontano 1987 Eni, Enel ed Enea diedero vita a una società, la Sotacarbo, “con la finalità di sviluppare tecnologie innovative e avanzate nell’impiego del carbone”. Negli anni obiettivi e composizione societaria sono cambiati: dal 1999 gli azionisti sono Regione Autonoma della Sardegna ed Enea. “Abbiamo fatto una serie di test per valutare la possibilità di stoccare la CO2 nelle miniere di carbone del Sulcis”, spiega Paolo Deiana, ricercatore Enea oggi responsabile del progetto Hydrogen Valley. “E abbiamo anche studiato se una volta iniettata in profondità la CO2 può risalire in superficie attraverso le faglie”. Con quali conclusioni? “La Ccs dal punto di vista tecnologico si può fare”, risponde Deiana, “ma resta da vedere se è fattibile dal punto di vista economico e da quello politico”.
Le altre ricerche
Se è vero che, a parte Eni, non ci sono aziende o startup italiane attratte dalla cattura della CO2, l’argomento continua ad essere esplorato da gruppi di ricerca universitari. “Alla Federico II di Napoli“, dice Stefano Consoni, “il team guidato da Piero Salatino sperimenta come intrappolare la CO2 nei letti fluidizzati (solidi che in particolari condizioni si comportano da fluidi, ndr). A Bologna si studiano particolari membrane capaci di lasciar passare molecole di piccole dimensioni, come quelle dell’acqua, e di trattenere la CO2. Mentre all’Università di Padova lavorano sulla logistica e il trasporto della CO2 concentrata e liquida, perché una volta catturata deve poter esser portata a destinazione”.
La frenata italiana
L’impressione tuttavia è che, al netto delle obiezioni sull’impatto ambientale della Ccs, l’Italia abbia rinunciato a puntare su questa tecnica. “Tra il 2011 e il 2012 il nostro Paese recepì la direttiva europea sugli stoccaggi e ci fu un fiorire di iniziative”, ricorda Deiana. L’Enea insieme all’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia realizzò anche una mappa dei potenziali giacimenti in cui stoccarla: “La capacità disponibile”, si legge nel documento, “è di svariati ordini di grandezza superiore assicurando quindi una potenzialità di stoccaggio geologico di circa 350 anni”.
“Poi però abbiamo rallentato”, ammette Deiana, “perché tutta l’Italia ha frenato in questo settore. Noi possiamo sopportare le scelte della politica che però spettano ad altri”. Non siamo stati i soli a frenare: in Europa investono sulla Ccs i Paesi del Nord che hanno compagnie petrolifere con giacimenti offshore, come Norvegia, Olanda, Regno Unito. “L’Europa continentale ha preferito investire su energie rinnovabili e idrogeno”. E non è un caso che nel Pnrr italiano non si faccia menzione della cattura di CO2. “L’assenza di bandi e progetti a cui partecipare, o anche solo di una precisa indicazione politica ha prodotto il rallentamento delle ricerche in quella direzione”, conclude Deiana.
Le obiezioni degli ambientalisti e il futuro
“La Ccs è una tecnologia che, nonostante i grandi investimenti delle aziende energetiche, ha finora registrato fallimenti”, sostiene Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia che elenca i casi di Petra Nova in Texas (impianto chiuso nel 2020 dopo un investimento di un miliardo di dollari) e del progetto Gorgon della Chevron in Australia (dove la CO2 catturata è una solo una frazione di quella preventivata nei piani iniziali). “L’unica applicazione in cui funziona è quella per estrarre più petrolio dai pozzi petroliferi. È una tecnologia utilizzata propagandisticamente solo per difendere gli asset fossili, per giustificarne l’utilizzo e prendere tempo, ma in assenza di una attendibilità industriale”.
Dissente Consoni: “Al largo delle coste norvegesi viene stoccato un milione e mezzo di tonnellate di CO2 all’anno da più di 10 anni. Il vero problema è la percezione dell’opinione pubblica, falsata dall’ambizione di ottenere qualcosa di impossibile: rischio zero e impatto zero. Poi, certo, c’è il tema economico: oggi esiste la tecnologia ma non le condizioni economiche per renderla interessante. Ma lo diventerà presto, se il prezzo dei crediti di carbonio continuerà a salire: aziende che emettono molta CO2, come i cementifici o le acciaierie, troveranno conveniente investire in Ccs piuttosto che pagare per le loro emissioni”.
Al netto degli schieramenti, resta ora da vedere quanto gli scienziati dell’Ipcc nel loro rapporto di martedì riterranno fondamentale la cattura e lo stoccaggio della CO2 per poter tenere fede agli Accordi di Parigi. Una chiara indicazione in tal senso potrebbe rimettere in modo ricercatori e imprese in Europa e in Italia.