Chissà cosa pensava ieri la premier italiana Giorgia Meloni ascoltando l’elogio del petrolio di Donald Trump, nel discorso di insediamento come 47esimo presidente degli Stati Uniti. Meno di una settimana prima la presidente del Consiglio si era ritrovata in un consesso completamente opposto: il World Future Energy Summit di Abu Dhabi. Pur andando in scena in un Paese che basa la sua ricchezza sull’oro nero, gli Emirati Arabi Uniti, quel vertice internazionale ha sancito che non sarà il petrolio l’energia del futuro, nemmeno di quello prossimo. E’ in quella occasione che Meloni ha annunciato l’accordo con Emirati e Albania per importare energia pulita dal Paese delle aquile, prodotta con soldi e tecnologie emiratine.

Un progetto che prevedete la realizzazioni di impianti eolici e fotovoltaici (l’Albania è già ricca di idroelettrico) e di un elettrodotto che colleghi le due sponde dell’Adriatico. Secondo il premier di Tirana Edi Rama l’intesa con Roma e Abu Dhabi vale un miliardo di euro. “L’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili guarda con grande apprezzamento a questa intesa”, dice Francesco La Camera, direttore di Irena, “anche perché conferma i nostri studi che individuano l’Italia come ponte verso l’Africa e il Medioriente per quanto riguarda le infrastrutture di energie rinnovabili”. Viene però da chiedersi quale sia la reale strategia energetica del nostro governo, che ha lungamente rivendicato per l’Italia il ruolo di “hub europeo del gas” (poi declinato in un più generico “hub energetico”), che si accoda, ma forse solo per omaggiare il potentissimo alleato, alla retorica trumpiana del “drill, baby drill”, che con Eni continua comunque ad esplorare il mondo in cerca di nuovi giacimenti fossili e stringe accordi con grandi esportatori di gas come Algeria e Azerbaigian. E poi fa alleanze con Paesi che, in modo certamente più lungimirante degli Usa di Trump, hanno capito come l’era dell’oil&gas abbia vita breve e occorra attrezzarsi per il futuro.

Pochi giorni prima del summit di Abu Dhabi, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin era volato a Riad, dove ha incontrato il potentissimo ministro dell’energia saudita Abdulaziz Bin Salman Al Saud. “I principali focus del Memorandum d’Intesa”, si legge nella nota ufficiale, “riguardano le energie rinnovabili, la riduzione delle emissioni di metano, le interconnessioni elettriche, l’idrogeno rinnovabile e a basse emissioni, i suoi derivati di natura rinnovabile e low-carbon come l’ammoniaca, i sistemi di cattura, stoccaggio e utilizzo della CO2”. Anche i sauditi, come gli emiratini, sono impegnati a investire le montagne di petrodollari, guadagnati estraendo ed esportando greggio, in innovazione ed energie green. Il loro progetto di punta è Neom, città sostenibile alimentata da energia pulita che sta sorgendo nel deserto. A novembre la nostra Sace, agenzia di assicurazione del credito controllata dal ministero dell’Economia, ha fornito a Riad garanzie su prestiti da 3 miliardi di dollari per lo sviluppo del progetto che ha un costo stimato di 1500 miliardi di dollari. Poi la sortita di Meloni e Pichetto Fratin ad Abu Dhabi. Se la strategia energetica italiana appare poco chiara e ispirata a una generica “diversificazione” (gas naturale finché serve e comprato dal miglior offerente, rinnovabili sì ma senza fretta, ritorno al nucleare entro il prossimo decennio e poi chissà in futuro idrogeno e fusione nucleare…), le recenti intese rendono invece trasparenti i piani dei petrostati mediorientali.

Chi li guida sa che loro e forse i loro figli faranno ancora tanti soldi con il petrolio, ma certamente non succederà ai nipoti. E così stanno riorientando i loro business, cercando di conquistare i futuri mercati di “elettroni e molecole”, come dicono gli analisti del settore. Da qui, una serie di accordi per trovarsi in posizione di vantaggio competitivo quando ci sarà da costruire elettrodotti (per portare in Europa l’elettricità prodotta in Nordafrica e Medioriente con sole e vento) e gasdotti specifici per l’idrogeno (è ancora oggetto si controversia se quelli attuali progettati per il gas naturale siano adattabili alla molecola H2). Si spiega così l’intesa di Abu Dhabi con Italia e Albania. Che va inscritta in un quadro più ampio. Nel settembre del 2023 la Grecia ha firmato un accordo con l’Arabia Saudita per un elettrodotto (il Saudi Greek Interconnection) che porti fino in Germania l’elettricità saudita, passando per Atene. Un altro progetto analogo (il Great Sea Interconnector) vede coinvolte, oltre alla Grecia, Cipro e Israele. E dall’altra parte del Mediterraneo, almeno sulla carta, si pianificano opere analogo: l’Algeria punta a stendere un cavo sottomarino che porti elettricità green in Italia passando per la Sardegna. Infine il Morocco-UK Power Project, il cui obiettivo è fornire a milioni di case britanniche energia rinnovabile generata in Nord Africa e trasportata tramite 4.000 km di cavi sottomarini. Ci vorrà tempo perché gli elettrodotti sostituiscano gasdotti e oleodotti, navi gasiere e petroliere. Ma i petrostati, come la lontana Cina d’altra parte, non hanno cicli elettorali di 4 o 5 anni: possono pianificare le loro politiche energetiche da qui ai prossimi decenni, senza temere il giudizio delle urne.

Se però i colossi mediorientali hanno risorse economiche e stabilità politica, non altrettanto si può dire di Paesi come l’Algeria. “In questo caso il nostro ruolo può essere proprio di stabilizzazione”, spiega Silvia Francescon, che si occupa di politica estera per Ecco, il think tank italiano per il clima. “Se il mercato del petrolio e del gas dovessero crollare nei prossimi anni, come lasciano intendere le previsioni, quei Paesi la cui economia poggia tutta sull’esportazione di combustibili fossili, rischieranno il collasso. Aiutarli a riconvertirsi in tempo alle rinnovabili è un modo per sostenere la loro stabilità futura”. Anche se questo può voler dire, per Paesi come l’Italia, rinunciare alla propria autonomia energetica. Per decenni abbiamo importato dall’estero petrolio e gas (senza contare l’elettricità prodotta in Francia con il nucleare), il che ci ha reso spesso dipendenti da sceicchi e dittatori. Ci era stato detto che con le rinnovabili, con il sole e il vento di cui disponiamo, avremmo potuto produrre in casa l’energia che ci occorre. E invece ora la prospettiva è di importare anche elettroni e idrogeno verde dall’Albania, dall’Algeria, in futuro dagli Emirati.

Resta poi l’incognita Trump: vuole davvero riportare indietro le lancette della storia, rivitalizzando un’industria, quella del petrolio, che altri grandi player stanno, lentissimamente, dismettendo? Ci riuscirà? E la fedeltà all’alleato americano interferirà con gli accordi green appena sottoscritti dal’Italia di Giorgia Meloni?