Per Stefano e Roberta quello che sembrava solo un progetto per superare una crisi economica familiare si è invece trasformato in una vera e propria scelta di vita di cui vanno orgogliosi: hanno salvato dal rischio estinzione una specie ovina autoctona del Veneto di cui si contavano poche decine di esemplari, la razza Foza. Un’antichissima pecora arrivata nel Nord-est già nel Medioevo al seguito dei popoli del Nord Europa e che per secoli ha fatto parte della vita quotidiana dei vicentini. Al punto da venire identificata come “pecora vicentina”.

 

A lungo utilizzata per la tessitura e aver fatto la fortuna dei lanifici della pedemontana veneta, dalla Lanerossi di Vicenza alla Marzotto di Valdagno, è stata via via sostituta da razze di pecora dal vello più morbido, provenienti dall’Australia e dall’Asia. E dai 200 mila capi che si contavano nel 1763 (come si legge nei codici esposti al Museo etnografico della Comunità di Foza) gli ovini vicentini nel giro di due secoli sono scesi a poco più di 9 mila esemplari. Fino quasi a non vederne più traccia, tranne nel 1991, quando un pastore ne segnalò la presenza di una sessantina di capi nella zona di origine. Oggi se ne contano 200 esemplari.

Una situazione così difficile che la Regione Veneto in uno studio di qualche tempo fa spiegava: “La situazione è molto critica e non sembrano intravedersi segnali di inversione di tendenza che possano portare queste popolazioni di ovini a un livello di numerosità tale da scongiurarne la scomparsa nel prossimo futuro”. Ma qualcosa ora è cambiato. Grazie a Stefano Sartori e Roberta Forte, che si sono reinventati pastori e malgari, nell’Altipiano di Asiago le pecore Foza non solo sono tornate a pascolare negli alpeggi delle loro origini, ma nelle scorse settimane – dopo un secolo dall’ultimo gomitolo – sono riusciti a produrre il primo filato di pecora Foza. “Quando ce l’hanno consegnato ci siamo commossi”, raccontano.

Custodi della biodiversità

Ex geometra lui, esperta di trekking a cavallo lei, entrambi di Vicenza e con la passione per l’agricoltura a poco più di 40 anni e due figli, hanno deciso di mollare il lavoro e trasferirsi in montagna. “A causa della crisi economica che aveva coinvolto l’azienda per cui lavoravo, nel 2015 ci siamo ritrovati a ricominciare daccapo” racconta Stefano che insieme a Roberta hanno cercato per mesi un posto adatto per fare il “salto”.

 

 “Abbiamo deciso di ricominciare, tornando alle radici familiari – spiega Stefano – mio nonno era un pastore e i racconti delle giornate trascorse in alpeggio, hanno sempre accompagnato la mia vita e sono stati condivisi da Roberta. Così ci siamo messi alla ricerca sia di una malga dove poter vivere, sia di animali da poter accudire, oltre i cavalli”. La scelta è ricaduta su Malga Col di Vento a Cesuna sull’Altopiano dei Sette Comuni, considerato una sorta di distretto economico della produzione di latte. “Qui gli allevatori sono proprietari di un gran numero di mucche – spiega – ma noi volevamo fare qualcosa che regalasse sia a noi, sia alla comunità, un valore aggiunto”.

E  su quel “valore” moglie e marito non hanno avuto dubbi: fin dall’inizio volevano salvaguardare un piccolo pezzo di patrimonio di biodiversità locale. La loro attenzione si è concentrata così sulle varietà di ovini vicentini a rischio estinzione. Il passo succesivo è stato conoscere gli autori del progetto “Sheep Up – Biodiversità Ovina Veneta” finanziato dalla Regione Veneto con la collaborazione della facoltà di Agraria dell’università di Padova, impegnati a salvare quattro delle razze ovine venete dall’estinzione: oltre la pecora Foza, le pecore Brogna, Lamon e Alpagota. Da quache anno è stato anche aperto un centro di conservazione delle razze ovine autoctone in provincia di Belluno. La scelta è ricaduta sulla pecora Foza, legata alla zona geografica in cui la famiglia Sartori aveva scelto di aprire la stalla.

Il primo gomitolo 

E dopo i cavalli, nei 15 ettari di Malga Col di Vento, nel 2017 sono arrivate le pecore Foza. Da 6 capi ora se ne contano 40. A occuparsene è Stefano, che ha imparato il mestiere di pastore. “All’inizio non è stato facile e ho commesso diversi errori, ma ora questa nuova vita penso sarebbe dovuta essere la mia prima scelta e non tornerei indietro”.

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Dopo l’allevamento è arrivata la tosatura e adesso il primo gomitolo. “È una lana non facile per essere utilizzata nell’abbigliamento – ammette Sartori – non in linea con i gusti attuali: poco elastica e pungente. Ma è ottima per la realizzazione di accessori, tappeti, arazzi e oggetti di arredamento. Da 10 chili di lana grezza, dopo il lavaggio, se ne ricavano 5 chili. La resa è buona e il costo è di circa 5 euro al gomitolo”.

Ma Stefano e Roberta, da soli, ovviamente non ce la fanno a sostenere oltre la sopravvivenza delle pecore, il futuro della lana Foza. “Va creato un mercato e le strutture per la lavorazione, in particolare il lavaggio. Qualcuno si è fatto avanti, persone che hanno lavorato nel mondo dei filati in una importante azienda del trevigiano, ma siamo alle fasi inziali”.

Il primo gomito di lana Foza è stato vissuto con una grande gioia a Malga Col di Vento. Ora Stefano e Roberta non si sentono solo i custodi di antiche razze animali, e guardano al futuro. “Quel gomitolo di lana parla di salvaguardia dell’ambiente rurale. In quell’oggetto abbiamo intravisto tutta la ricchezza che può rivelare la tutela della biodiversità animale e vegetale che va conservata e protetta. Un patrimonio legato al territorio e che deve essere disponibile per le generazioni future. Siamo convinti che per il futuro dell’agricoltura e dell’allevamento sia fondamentale salvare e recuperare questo patrimonio antico”.