La fotografia sa come scioccare, come terrorizzare. Le immagini di guerre, povertà, devastazioni, colpiscono e lasciano il segno. Lo stesso vale per le foto che diventano un pugno nello stomaco quando richiamano la realtà del cambiamento climatico: le scene desertiche di quelli che erano specchi d’acqua, le inondazioni, la spazzatura che invade le rive degli oceani, i ghiacciai che si ritirano. Tutto il dramma ambientale dei nostri tempi è documentato attraverso l’obiettivo fotografico. Ma la fotografia stessa, quanto è sostenibile? il Quale è il contributo della produzione di fotografie al cambiamento climatico causato dall’uomo? Su queste domande è sviluppata la mostra Mining Photography, aperta al pubblico fino al 29 maggio, nelle sale della Kunst Haus di Vienna, il primo museo “verde” della capitale austriaca.
Quanto inquina la fotografia
Dal rame utilizzato per i primi dagherrotipi, alle terre rare e al cobalto presenti nei cellulari con cui si producono le immagini digitali, la produzione fotografica non ha mai potuto fare a meno di sfruttare il suolo. È sempre stato così. Agli albori della storia della fotografia, intorno alla metà del XIX secolo, Parigi era un importante centro di produzione di lastre per dagherrotipi: venivano utilizzate circa 100 tonnellate di rame all’anno, che venivano lavorate principalmente a Swansea, in Galles, utilizzando una quantità di carbone da tre a quattro volte superiore al proprio peso. Le condizioni di lavoro per chi se ne occupava erano precarie, l’impatto sull’ambiente enorme. Dopo l’avvento delle stampe su carta alla gelatina ai sali d’argento, alla fine del XX secolo l’industria fotografica divenne il più importante consumatore di argento, rappresentando più della metà del consumo globale.
E oggi? Nell’era della fotografia digitale e degli smartphone, la produzione di immagini si basa su terre rare e metalli come il coltan, il cobalto e l’europio, e l’archiviazione e la distribuzione delle immagini producono grandi quantità di CO2: secondo le stime, le tecnologie digitali utilizzate nella trasmissione, ricezione ed elaborazione di dati nel 2025 contribuiranno per l’8,5% alle emissioni globali di CO2. Tutte le foto che hanno raccontato la storia del mondo sono sempre state strettamente connesse allo sfruttamento e all’inquinamento dei suoi ambienti naturali.
I curatori del Museum für Kunst und Gewerbe di Amburgo, che ha avviato la mostra ora a Vienna (e che andrà poi a Winterthur in Svizzera, terzo partner del progetto), hanno fatto una ricerca artistica e storica allo stesso tempo, arrivando a definire 5 materiali associati alla fotografia per raccontare la storia di quest’arte associandola ai suoi danni collaterali. Cinque materiali che sono diventati le 5 sezioni dell’esposizione.
Nelle sale del museo progettato dall’architetto ecologista Friedensreich Hundertwasser, che tratta sistematicamente in maniera critica e visionaria questioni ambientali e di sostenibilità all’interno del discorso artistico, sono esposte con un allestimento di materiali riciclati e riutilizzabili 170 opere: fotografie storiche, installazioni contemporanee, video di interviste con esperti (un chimico, un attivista, un restauratore, un mineralogista e un biologo) che raccontano come la storia dell’arte fotografica possa essere ripercorsa dalla prospettiva della sua produzione industriale. Come sottolineano i curatori, curatore Boaz Levin e Esther Ruelfs, l’idea alla base di tutto non è accusare la fotografia di essere “cattiva”, ma di utilizzare l’esempio della fotografia per guardarci in casa, per acquisire consapevolezza sul fatto che il cambiamento climatico ci riguarda tutti da vicino, anche quando prendiamo in mano lo smartphone per fermare per sempre un attimo sullo schermo.