La prima volta è stata nel 2018. Lungo la Brooks Range, una catena montuosa dell’Alaska settentrionale, che arriva quasi a toccare il Canada, i fiumi hanno iniziato a tingersi d’arancione. Proprio così: cristalline fino a qualche mese prima, le acque di corsi d’acqua come l’Akillik, nel parco nazionale della Kobuk Valley, hanno cambiato colore. E alcune specie di pesci sono fatalmente scomparse. Quanto basta per allarmare la comunità scientifica e spingere un team di ricerca a indagare il fenomeno. E c’entra, neanche a dirlo, il cambiamento climatico, come riporta uno studio appena pubblica sulla rivista Communications Earth&environment.
Perché a causare il fenomeno è il graduale scongelamento del permafrost, che nella regione artica ha profondamente alterato – negli ultimi dieci anni – la biogeochimica dei bacini idrografici. Metalli come zinco, rame, cadmio e ferro – immagazzinate nel permafrost artico, insieme con sostanze nutritive – subiscono un’alterazione chimica, complice l’esposizione all’ossigeno, e vengono rilasciati nell’ambiente finendo – attraverso il sottosuolo – nei corsi d’acqua: lo studio ne ha monitorati addirittura 75, quasi tutti diventati arancioni (come ha mostrato, insieme all’osservazione diretta, un monitoraggio attraverso tecniche di telerilevamento) nel corso di quello che i ricercatori hanno definito come un “periodo di rapido riscaldamento climatico”. Un periodo che prosegue, naturalmente, con trend addirittura in crescita.
“Più sorvolavamo i fiumi, più iniziavamo a notare corsi d’acqua arancioni”, ha spiegato in una nota l’autore principale dello studio, Jon O’ Donnell, biologo in forze all’Arctic Inventory and Monitoring Network del National Park Service, l’agenzia federale statunitense incaricata della gestione dei parchi nazionali, dei monumenti nazionali e di altri luoghi protetti.
E non si tratta, naturalmente, solo di una questione meramente estetica (del cambiamento cromatico il ferro è il maggiore indiziato): il processo si traduce in un abbassamento del pH e in una torbidità più elevata. E, quel che più conta, concentrazioni più elevate di solfati, ferro e altri metalli si associano, rileva la ricerca, “a un drastico calo della diversità dei macroinvertebrati e dell’abbondanza di pesci“.
Con una serie di implicazioni, naturalmente negative, per l’approvvigionamento di acqua potabile e la pesca di sussistenza nelle zone rurali dell’Alaska. Sin qui, peraltro, pochi studi si erano concentrati sulle cause della mobilitazione del ferro e di altri metalli dai terreni in disgelo ai corsi d’acqua: una frontiera nuova, e per certi versi inquietante, che ora necessita di approfondimenti. Anche per meglio comprenderne le conseguenze per qualità dell’acqua e sulla catena trofica degli ecosistemi: secondo i ricercatori, pesci d’acqua dolce come il Salvelinus malma, il salmone keta e il coregone dell’Alaska potrebbero presto soccombere.
E non a caso uno degli obiettivi, a margine della ricerca, è di garantire adeguate informazioni alle comunità locali, tendenzialmente isolate in larga parte fondate su economia di autosussistenza, su un fenomeno che potrebbe avere effetti diretti anche sulla saluta umana. E non finisce qui. “Del resto la zona artica si sta riscaldando almeno due o tre volte più velocemente del resto del Pianeta e dobbiamo dunque attenderci che questo tipo di effetti continui”, annota Scott Zolkos, ricercatore del Woodwell Climate Research Center, non direttamente coinvolto nello studio.