Comunione arborea – (s. f.) Abbandonarsi all’abbraccio degli alberi, camminare in solitudine nei boschi, in un giardino alberato, in un luogo remoto. Meditare accanto ad un albero o ai piedi di un arboreto. Sentirsi connessi al respiro del mondo naturale, del pianeta, del cosmo.
Settimana scorsa ho accompagnato un gruppo di persone tra gli alberi nei giardini del Parco Reale a Monza. Ci sono stato tante volte, in diverse occasioni ho “guidato” camminate per cercatori di alberi particolari, secolari, ho articolato meditazioni accanto al ruscello, nel bosco e una volta, un inizio novembre, addirittura sotto la pioggia battente, al calare della sera, in una giornata di tardo autunno che già preannunciava l’inverno, eravamo là, una manciata di anime, a ghiacciare nel silenzio cantato della pioggia che precipitava e rintoccava sui legni, abbattendo le ultime foglie, vicino al cerchio dorato di una famiglia di ginkgo biloba oramai spoglia.
Questa volta il gruppo di persone che, per la maggior parte, non si erano mai incontrate prima, è nutrito, intorno a noi un parco cittadino in una giornata favolosa, cielo sgombro, tepore, oltre a noi altri gruppi di appassionati, un gruppetto di francesi che chiamavano una città che non esiste – Monzà Monzà… – e un manipolo di fotografi della natura. Diversi ragazzi sdraiati sui loro teli nei prati antistanti la Villa Reale, in attesa che due mongolfiere si alzino in cielo. Musica dal vivo, un piccolo bar animoso. Il solito andirivieni indaffarato e nutrito di un sabato pomeriggio.
La prima stazione del nostro cammino ci porta all’interno di una piccola invenzione sì della natura, ma congegnata dalla fantasia umana: un cerchio di faggi piangenti collocati diversi anni fa nel mezzo dei giardini, ricordo ancora quando li vidi piantati, con le loro piccole chiome a tratteggiare un eventuale cerchio solitario, modesto, tutto circondato dalle ragioni del sole. Piano piano ogni faggio si è irrobustito, ha alzato il proprio baricentro, si è avvicinato agli altri, e ora, dopo anni, questi faggi sono alberi adulti, le loro cime si sono addossate le une alle altre e quando si entra nel cerchio si penetra un bosco a parte, un luogo di fatto molto amato dai ragazzini, che qui vengono a giocare, a bisbigliare, a condividere un po’ di mistero, come le case sugli alberi, le grotte o le vecchie case abbandonate che fanno – o forse è meglio dire facevano – la felicità di tanti ragazzini che abitano in campagna. Felicemente anche per noi adulti entrare qui dentro ci riporta un po’ bambini, è emozionante, non strabiliante, ma abbiamo la netta sensazione di intrufolarci dove non dovremmo, siamo qui a disturbare le linfe, a spiarle, come ragionano questi alberi… si parla di buddismo, si parla di eremiti vissuti oltre mille anni fa, delle loro poesie incise nelle cortecce dei pini e sulle rocce delle montagne, di “con calma leggo la vera parola senza lettere”, un verso del maestro zen Zenkei Shibayama (1894-1974).
Tessendo parole tra gli alberi di un parco si può creare una curiosa dicotomia: da una parte vorresti soltanto sentire, metterti lì in ascolto, seduto, raccolto, percepire, ammirare le foglie, le geometrie, i piccoli movimenti, studiare. Ma poi c’è anche la parola, l’immaginazione, la poesia, la letteratura, che arricchiscono, le storie che ci si vuole raccontare come da migliaia di anni intorno a “un fuoco”. Credo si partecipi a queste camminate nei parchi, nelle riserve, nei giardini storici proprio per ritrovarsi intorno a “un fuoco” e raccontarsi storie, qualcuno le ha scritte, magari ne conosciamo nome e cognome, altre sono a portata di tutti, basta guardare nella giusta direzione.
Chiamo queste esperienze in vari modi – Il tessitore di foreste, Lezioni di boschese, La procreazione del bosco – ma si tratta sempre di minimi esercizi di comunione arborea, poiché quel nostro curiosare solitario che ogni tanto ci porta più vicino al cuore naturale del mondo, per quanto antropizzato, si mescola al curiosare di altre persone, sono atti sociali dove ciascuno al contempo condivide ma riesce a coltivare anche la propria individualità.
Talora la gente si sente in soggezione quando si arriva il momento della “meditazione”: occhi un poco spersi, noooo, la meditazione, il silenzio… che ci faccio qui? Poi non riesco a stare fermo, che noia, le ginocchia, sporco i pantaloni, che ghiande… e invece quei 15 o 20 minuti di raccoglimento e di riposo nel cuore di un boschetto, portano ristoro alla nostra mente, nei nostri corpi da battaglia, gli alberi ci accolgono e ci confessano, ci snervano. Anche chi non ha mai meditato si ritrova un piccolo dono inatteso. E questo a me rende più felicità che ricevere premi, che mostrare al mondo quanto forse sono bravo – assai discutibile. Amare insieme è sempre un’occasione speciale, in natura ancora un pezzetto in più.
Tiziano Fratus vive in una casa davanti a un bosco. È autore di molti libri e medita.
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