Sono più di 13 mila le testate nucleari sparse per il mondo. A possederle sono una decina di Stati. Il dato non può che allarmare soprattutto in considerazione della guerra in corso tra Russia e Ucraina. Su questa profonda preoccupazione muove le leve il film “Pluto” di Renzo Carbonera, giovane regista che sin dalla sua opera prima, “Resina”, presta una grande attenzione alla tematica della salvaguardia ambientale. Anche il suo nuovo e potente film, affronta in profondità la paura del rischio atomico e diventa la trasposizione per immagini della nostra continua convivenza con la guerra.
“Sembra quasi un istant movie – sottolinea l’attore Andrea Pennacchi, famoso al grande pubblico per il suo personaggio il Pojana, ospite fisso del programma Propaganda Live (in onda su La7) e protagonista di “Pluto” – pensato alla luce delle nuove tensioni geopolitiche e invece quando abbiamo girato non era ancora scoppiata la crisi tra Russia e Ucraina e non era nemmeno prevedibile”.
Periodo intenso per Andrea Pennacchi, ora al cinema con “Pluto” e in tournée nei teatri con “Pojana e i suoi fratelli” (dove, incredibile a dirsi, il Poiana canta, balla e trascina il pubblico in un viaggio “made in Veneto”) e, infine, in libreria con Shakespeare and me dove racconta come il Bardo di Stratford-upon-Avon lo ha cambiato. In qualsiasi forma lo incontri, Pennacchi, però, lo riconosci per il marchio di originalità e sincerità con cui si racconta.
“Pluto”, il trailer
“Pluto” parla della paura rinnovata per la catastrofe nucleare. Come si è trovato a recitare quasi sempre da solo?
“Devo confessare che non ho avuto particolari difficoltà ad essere solo sul set per la maggioranza delle scene e quindi, anche se dal punto di vista della recitazione molto era sulle mie spalle, non ho sentito una particolare pressione. Mi ha aiutato molto la mia esperienza teatrale dove, con i miei personaggi, sono in solitaria sul palco. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che con il regista Renzo Carbonera, con cui avevo già lavorato nel film ‘Resina’, ci siamo confrontati a lungo sul significato del film e sulle caratteristiche del personaggio che dovevano emergere. ‘Pluto’ l’ho vissuto come un monologo cinematografico. Devo anche aggiungere che abbiamo scoperto per strada molte sfumature del protagonista. Il mio personaggio Franco ‘Chief’ Carling si è andato arricchendo scena per scena. È stato un lavoro in profondità che siamo riusciti a fare grazie ad una comune disponibilità, mia e di Carbonera, a far venir fuori paure, reazioni inconsce e tic che non erano state ancora definite nella fase preparatoria. Nel film, soprattutto nella parte finale, un ruolo importante ha avuto anche il personaggio interpretato da Sara Lazzaro”.
Con i suoi personaggi televisivi e teatrali hai sdoganato il dialetto veneto. “Pluto” invece è girato tutto in inglese. C’era bisogno, visto il tema, di una dimensione globale?
“Sì, è stata una bella esperienza. Devo confessare, in realtà, che l’uso della lingua inglese mi ha aiutato ad entrare in quel tipo di personaggio che non poteva parlare in dialetto veneto né in ‘doppiaggese’, ovvero in un italiano impostato e recitato. Con la scelta dell’inglese abbiamo pensato di dare voce a sentimenti di preoccupazione che non hanno confini. L’altra ragione è più legata al desiderio di far vedere il film a più persone possibili. ‘Pluto‘ è un film di nicchia e, per questo abbiamo pensato alla possibilità di farlo girare molto sulle piattaforme streaming internazionali, abbiamo puntato alle tante nicchie sparse per il mondo. Non potevamo rivolgerci solo ad un pubblico italiano anche se, chiaramente, il nostro desiderio è che il film sia visto il più possibile nelle nostre sale. Oggi il nostro racconto dà sostanza a preoccupazioni che attraversano tutto il mondo e che per anni abbiamo fatto finta fossero sopite”.
Il genere distopico era un genere raro nel cinema italiano, ora lo vediamo più spesso e faccio riferimento a titoli recenti come “Mondo cane” di Alessandro Celli, “La terra dei figli” di Claudio Cupellini, “Siccità” diretto da Paolo Virzì. Si sta diffondendo tra i registi una nuova sensibilità?
“Credo proprio di sì. Personalmente non mi approccio ai problemi con un senso di paura. Non amo i facili allarmismi. Ora però devo dire che la problematica presa in esame dal film e la questione ambientale che stiamo vivendo richiedono la massima attenzione e la convinzione che qualcosa vada fatto per scongiurare quello che appare all’orizzonte. Senza essere pessimisti non possiamo non ammettere che stiamo attraversando dei grandi cambiamenti. Ci siamo resi conto che la maniera in cui abbiamo vissuto finora non è sostenibile, sia nelle forme in cui si fa politica e sia nel modo di consumare il mondo stesso”.
Il film tra le righe parla anche di imperizia e sbagli che potrebbero essere catastrofici. Capiterà tutto per errore?
“Il film invita a pensare a quante cose possono andare male, e quali conseguenze possono avere i nostri comportamenti. Il mio personaggio nel film ricorda episodi preoccupanti, come quello accaduto in una base militare americana dove per errore avevano caricato sei missili Cruise su un areo sbagliato. Una svista che poteva essere catastrofica. Sinora siamo stati fortunati. Non credo che qualcuno si prenderà la responsabilità di far scoppiare una guerra nucleare, ma che ci siano concreti margini di rischio legati ai più diversi fattori”.
Il tema del rischio nucleare è stato spesso raccontato dai film. Vi siete ispirati a qualche pellicola in particolare?
“Io sono un divoratore di vecchi film e amo molto la fantascienza come genere. Sono diversi i film che ho visto prima di girare ‘Pluto’. Il primo, per similitudine formale, è ‘Io sono leggenda’ ma ho rivisto anche grandi classici come ‘Il dottor Stranamore’, che aveva un sottotitolo geniale e attualissimo ‘come ho imparato a non avere paura e ad amare la bomba’ e ‘The day after’. I film, la narrativa sono sempre portatori di un inconscio collettivo. Ci sono dentro di noi delle inquietudini diffuse. Chi scrive, chi dirige film o dipinge forse le coglie prima ma sono in realtà patrimonio comune”.
Nei suoi monologhi teatrali/televisivi parla spesso di ambiente e crisi climatica. È un tema che la appassiona da sempre o una presa di coscienza recente?
“Devo confessare che è un problema di cui ho preso coscienza in tempi relativamente recenti. Nel momento in cui me ne sono reso conto, però, è diventato centrale. Fino a venti anni fa erano pochissimi a parlare di questi temi. Ora che mi sono addentrato in questi temi ho scoperto come già negli anni Settanta ci fossero studiosi e ambientalisti che portavano avanti battaglie importantissime. Mi chiedo di chi sia la responsabilità del ritardo con cui oggi si arriva a parlare della questione ambientale. Il tema è cruciale, e penso ai ragazzi a cui lasciamo una eredità complessa da affrontare”.
Con un rovesciamento comico il personaggio di Pojana nei suoi monologhi critica l’ipotesi di una decrescita per contenere i consumi e parla di Greta Thunberg come di una bambina che marina la scuola. Gli ambientalisti stanno sbagliando il messaggio?
“Facciamo una distinzione importante, il Poiana, per strappare una risata amara, critica e sminuisce l’opera di chi s’impegna. Io, Andrea Pennacchi, invece sono estremamente grato ai tanti giovani che oggi hanno la forza di caricarsi di questo problema. Il punto è che non possiamo lasciarli soli”.
Oggi notiamo che c’è un ritorno del negazionismo e un rafforzamento del greenwashing. L’uomo sta facendo di tutto per mettere in secondo piano il problema ambientale. Perché?
“Credo che questo avvenga per due ordini di motivi. Il primo è che quando uno ha paura può reagire tappandosi le orecchie. È una reazione umana che comprendo. È complesso per l’uomo capire l’enormità del potere che come genere umano oggi abbiamo. Non ci rendiamo conto che i nostri comportamenti possono essere distruttivi nei confronti del pianeta. L’altra ragione, e per questa non trovo giustificazione, è che esiste chi lucra grazie ad azioni nocive e non esita a porle in essere, anzi cerca di nasconderle con l’inganno, con il greenwashing”.
Cosa può fare l’arte rispetto alla tematica ambientale?
“Raccontare le inquietudini, il malessere e le paure ma anche le storie che finiscono bene. Raccontare sempre l’apocalisse può non servire. L’arte può trovare parole nuove, quelle necessarie per cambiare e riconquistare un rinnovato equilibrio”.