Ai puristi della bellezza sembreranno già troppi, i turisti internazionali che si aggirano nella “Città dei Templi”, letteralmente la Angkor Wat cambogiana, nel suo nome “moderno”, e che vengono mostrati in questi giorni nei video e nelle immagini delle grandi agenzie di stampa internazionali. Sicuramente, sono una minima parte di quelli che giornalmente, frequentavano il sito gioiello khmer prima del fatidico marzo 2020 e di quelli che presto torneranno a riversarsi nel pur vasto – si tratta del complesso religioso più vasto del pianeta, oltre 1,6 km quadrati, poco più del doppio della Città Proibita cuore di Pechino, per offrire un paragone (vicino geograficamente e anche per quantità e tipologia di turismo) che a dispetto della vastità diventava spesso invivibile o quantomeno molto difficile da apprezzare.
L’apertura di Phnom Penh al turismo internazionale, a inizio mese, ha riportato gli ospiti stranieri nel Paese, a cominiciare dalla sua attrattiva numero uno, il luogo di culto datato XII secolo, prima induista e poi buddista che da quando la scoperta di terre lontane non è più fenomeno di élite occupa perennemente i gradini più alti di due podi quanto mai ambiti, quello dei luoghi più belli del pianeta e quello delle mete più desiderate. I primi turisti internazionali a mettere fisicamente piede, dopo dui anni, nel tempio circondato dall’acqua e da una miriade di rovine sono stati intercettati dall’agenzia di stampa francese AFP, che racconta dell’entusiasmo palesato dagli ospiti, al cospetto di un gioiello i cui conservatori hanno approfittato del lungo stop per portare avanti importanti lavori di restauro e rinnovamento.
Ai pochi visitatori di questi giorni riescono con grande facilità missioni che negli ultimi anni pre-pandemia erano quasi impossibili, come quella di entrare in uno dei tour organizzati del complesso, o di tentare di scattare la classica foto del tempio che “galleggia” sull’acqua. “E’ totalmente diverso dalle mie visite precedenti”, racconta a France Presse una turista belga.
Più a nord il tempio Bayon, l’ultimo costruito nell’area, celebre per le sue teste scolpite nella pietra, e il Ta Prohm, letteralmente strangolato da gigantesche radici di alberi, somigliavano a dei parchi giochi stipati di persone. Ora che la Cambogia, dopo che la sua popolazione ha raggiunto un tasso di vaccinazione considerato soddisfacente, le frontiere sono state riaperte, i turisti sono tornati, ma ad Angkor se ne contano ancora pochi. Dall’inizio dell’anno, l’antica caputale dell’impero khmer (IX-XIV secolo), sito Unesco dal 1992, non ha visto che 30mila ospiti internazionali, contro una media di 2 milioni annui negli ultimi anni pre-crisi, e un picco di 2,6 milioni nel 2018. Inutile dire che il tempio e l’intera Angkor – che con 400 km quadrati è il più grande sito archeologico al mondo (supera o è paragonabile a 4 province italiane, Trieste, Monza e Brianza, Prato e Gorizia) – contribuissero in maniera cospicua ai ricavi dell’industria turistica cambogiana, che dai 4,5 miliardi di euro di fatturato del 2019 è crollata ai 175 milioni del 2021.
Inevitabile conseguenza della crisi, molte attività commerciali, nonché diversi alberghi di Siem Reap, la città contemporanea che ospita il sito, hanno chiuso i battenti. Chea Sokhon, direttore generale dell’hotel Sarai Resort and spa racconta ad Afp di essere riuscito a riaprire, seppure a ranghi ridotti. Dopo aver licenziato nell’aprile 2020 la quasi totalità del personale, ha riassunto ora una dozzina di addetti. “Ma è come una ripartenza da zero”, racconta lui che è parte del consiglio del turismo della città. Sokhon racconta che un 20 per cento delle strutture alberghiere ha riaperto, e che un altro 30 per cento sta per farlo.
Meth Savutha è una guida locale. Negli ultimi due anni si è dovuto improvvisare insegnante di inglese sul web per sostenere se stesso e la sua famiglia. Ora è tornato ad Angkor. “Ma i gruppi ancora non ci sono, si spera che gli affari a tutto tondo ricomincino a fine anno”.
Catastrofica sotto quasi tutti i punti di vista, la pandemia ha però permesso ad alcuni del templi più fragili, messi a durissima prova dall’overtourism e dall’inquinamento, oltreché dalla vegetazione tropicale e dai monsoni, di recuperare. Molte delle delicate facciate in grés sono state riparate, mentre squadre di giardinieri si sono adoperate per rimuovere gli arbusti che si erano impadrioniti delle fessure degli edifici in principio di rovina. Si è poi installato un sistema di irrigazione che mantiene verde l’erba anche durante la stagione secca. “I nostri templi avevano bisogno di riposare – osserva Long Kosal, portavoge dell’Autorità per la protezione del sito, che però ricorda quanto il parco sia ancora vulnerabile. Gli edifici religiosi in argilla porcellanata sono i soli sfuggiti alla stretta mortale della foresta, della vegetazione, del monsone e delle termiti, che insieme hanno da tempo avuto ragione delle case e dei palazzi di legno ricoperto da tetti di paglia.
Per proteggere l’autenticità di Angkor, nel 2021 le autorità del sito sono riuscite a mettere il veto a un progetto kolossal, “Angkor – il lago delle meraviglie”, perpetrato dal gruppo Nagacorp, compagnia cambogiana che costruisce alberghi, parchi divertimento e casinò: prevedeva a soli 500 metri dalla zona regolamentata, la creazione di un complesso comprendente un parco acquatico, uno dedicato alle nuove tecnologie, un complesso alberghiero di lusso su un’area di 75 ettari.
Per ora non è andata, ma chissà in futuro. Per questo, e considerato che la Cambogia, quest’anno, si aspetta di ospitare appena 700 mila visitatori interrnazionali (3,5 volte i 200mila del 2021, ma poco più di un decimo rispetto ai 6,6 milioni del 2019), il consiglio è d’obbligo. Monsone permettendo (la stagione piovosa è appena cominciata, durerà fino a metà autunno), il suggerimento è d’obbligo: se avete a lungo sognato Angkor Wat, e potete, affrettatevi, perché fra non molto – vedi avvisaglie di primavera nelle terre nostrane – sarà peggio di prima.