Chhoeurm Try appoggia la scala contro le sinuose guglie della magnifica Angkor Wat, il sito cambogiano celebrato in tutto il mondo, prima di salire con cautela, per arrivare negli angoli remoti della sinuosa struttura, in modo da rimuovere foglie, rami e sterpaglie che potrebbero danneggiare le facciate di una delle meraviglie del mondo.
Cinquant’anni, di cui almeno 20 dediti a quest’attività, l’uomo è parte di una sorta di squada d’assalto, dedita ad assicurare che il sito più prestigioso del Paese asiatico non venga letteralmente strangolato dalla perenne invasività della vegetazione che lo circonda e che, entro certi limiti, è parte integrante del paesaggio di Siem Reap e, in generale, delle cittadelle e dei luoghi di culto antichi del sud-est asiatico.
Issarsi sulla torre principale di Angkor Wat è impresa tutt’altro che esente da rischi. “Un errore, e non sopravviviamo”, racconta all’agenzia Afp a fine operazioni. Ma non c’è altro da fare, se l’obiettivo è quello di tagliare e di rimuovere le radici quando crescono a dismisura, incessante battaglia contro la natura. “Quando un alberello ingrandisce, le sue radici scavano in profondità, sino a far crollare i muri”.
Il team consta di 30 giardinieri-acrobati, incaricati di preservare le dozzine di templi ospitati dall’Angkor Archaeological Park, opere datate tra il 9° e il 15mo secolo, che erano la principale attrattiva turistica cambogiana prima della pandemia, e che si spera possano tornare a essere visitabili presto. “Amiamo questi luoghi e vogliamo preservarli – racconta ancora Chhoeurm, che poi aggiunge: “Se non facciamo questo, le generazioni più giovani non potranno vederli”.
L’unica protezione di sicurezza adottata dai giardinieri è un caschetto blu. Tanto che nella situazone in cui il team è abituato a lavorare – circondato da folle di turisti – il tutto finisce per generare spavento tra gli ospiti. “Quando i turisti sia cambogiani che internazionali ci vedono scalare i templi senza protezione – racconta Ngyn Try, il caposquadra -, scambiano tutto questo per mancanza di competenza o di tecnica”.
In realtà usare corde in una “parete” tanto fragile è fuori questione, perché potrebbe danneggiare le opere; blindare le pareti con impalcature e reti richiederebbe settimane se non mesi. “Il tutto poi creerebbe problemi agli addetti – assicura Ngyn Thy -. Alla fine, per loro è molto più pratico e sicuro lavorare semplicemente dotati di un paio di forbici e puntare dritti all’albero che deve essere tagliato”.
In qualche tempio, i passaggi sono talmente stretti che gli addetti devono strisciare, letteralmente aggirare sospesi nell’aria le sculture in modo da non toccare – e danneggiare – i fregi. “Nei templi in mattoni il lavoro è anche peggio -, aggiunge Chhourm, raccontando di come una volta, un mattone caduto dal muro gli abbia aperto il casco in due.
I pochi turisti e monaci buddisti presenti osservano il lavoro della squadra trattenendo il fiato. Lasciati senza manutenzione, i gioielli di Siem Reap si ripresenterebbero ben presto nel modo in cui li vide il primo occidentale, il naturalista ed esploratore francese Henri Mouhot che vi si imbatté negli anni Sessanta dell’Ottocento. Abbandonati da secoli, gli antichi gioielli in pietra erano letteralmente sepolti nella giungla. “Più grande di qualunque cosa lasciata dalla Grecia o da Roma”, scrissec Mouhot a quei tempi, contribuendo ad accrescere in breve la fama dell’area, che è parte del Patrimonio Unesco dal 1992, ma è stato tra i siti in pericolo nel periodo 1998-2004.
La salvaguardia del gioiello passa inevitabilmente attraverso la costante, incessante, battaglia contro la natura. Apsara Authority, l’ente governativo che gestisce l’area, ha raccontato di aver sintetizzato e prodotto un liquido che fermerebbe la ricrescita delle radici, minimizzando i rischi per i giardinieri. “Ma ancora dobbiamo sperimentarlo bene, perché potrebbe anche danneggiare le pietre, una volta versato sulle radici”, ha spiegato il direttore Kim Sothin.
Al momento, la sorte di Angkor Wat rimane affidata a questi addetti, agili e temerari quanto basta. “Non tutti desiderano questo lavoro, perché è rischioso”, racconta Oeurm Amatak, un 21enne che fa parte del team da un anno. Oeurm sta ancora facendo pratica, e la sua tecnica è in via di perfezionamento, ma il coraggio non sembra fargli difetto. “Devi proprio amare questo lavoro e questo luogo – conclude -, non è da tutti”.