Annalisa Metta è architetta, dottoressa di ricerca in Progettazione dei Parchi, Giardini e Assetto del Territorio, professoressa ordinaria in Architettura del Paesaggio presso il Dipartimento di Architettura dell’Università Roma Tre. La sua ricerca, da anni, si rivolge ad approfondimenti teorico-critici ed esperienze applicate, tutti inerenti il progetto paesaggistico, a diverse scale spaziali e temporali, con particolare attenzione allo spazio pubblico. Dal 2018 membro del Consiglio Direttivo di IASLA – Società Scientifica Italiana di Architettura del Paesaggio, Annalisa Metta nel 2022 ha pubblicato per DeriveApprodi Il paesaggio è un mostro. Città selvatiche e nature ibride.
Selvatico, per lei, è il modo con cui il paesaggio può essere ancora mitico, misterioso, seducente. Porta con sé scoperta, occasione, possibilità, turbamento: “Mi riferisco – spiega – a tutte le forme di vita, umane e non umane, che si svolgono al di fuori della domesticazione e che per questo manifestano comportamenti indipendenti e imprevedibili, in un mondo, quello che abitiamo, in gran parte governato da protocolli che escludono le difformità, le anomalie, gli imprevisti”. L’ossessione umana per la prevedibilità implica spesso la semplificazione dei paesaggi, che invece per Metta sono simili a dei “mostri”.
Imprendibili, sfuggenti e talvolta ambigui: così sono i nostri paesaggi – sottolinea – e così siamo noi. I paesaggi sono la manifestazione della nostra presenza nel mondo e per questo ci assomigliano: grandezze e fragilità, desideri e inadeguatezze, valori nobili e meschinità, potere, disuguaglianze, amore e violenza. Sono magnifici e allo stesso tempo terribili: doppi, ambivalenti, contraddittori. E poi i mostri sono creature umane e non umane: sirene, sfingi, centauri, angeli, l’uomo-ragno o cat-woman. E cosa sono i paesaggi se non la combinazione di elementi umani e non umani?
Questa lettura critica riguarda anche la retorica ecologista: “specialmente se sostenuta dal marketing, l’impostazione aritmetica quantitativa riduce il paesaggio urbano al dominio della pura prestazione ecologica e, per quanto possa apparire paradossale, lo allontana dalla natura, che si rimpiange e ci si inganna di venerare. Siamo ossessionati dalla quantità di alberi da piantare nelle nostre città per i benefici che possono portarci. Ma alberi, insetti, rapaci, anfibi, ecc. dovrebbero avere posto in città non perché ci servono, ma perché hanno diritto di vivere, di vivere con noi, non di vivere per noi“.
Come sfuggire a questa retorica?
Cominciando, ad esempio, a smettere di usare la generica parola verde, che è appunto solo uno standard quantitativo, per indicare gli spazi aperti della città.
Uno dei capitoli del libro Il paesaggio è un mostro si intitola “Il verde è il nuovo beige”, proprio in riferimento a una sorta di beigewashing, in cui si spiega il verde è diventato un colore di sfondo, un “grande classico” che rassicura e concilia: “una salsa, speziata quanto basta, da spalmare in ogni dove. Il rischio è di oggettivare la natura, nella fattispecie la vegetazione, considerandola un talismano per curare le nostre nevrosi, di fatto trascurandone gli aspetti forse meno piacevoli, gli appassimenti, ad esempio, e ignorando che la natura ha molti colori, compreso il marrone, che è il colore delle foglie secche e della terra nuda. Credo che un modo per sfuggire al greenwashing, cioè alla reificazione consensuale della vegetazione, sia ammettere che essa è viva e imperfetta, proprio come noi. Che è verde, ma anche marrone”.
Presidente di Giuria al concorso “Avventure Creative” dell’edizione 2024 del Festival del Verde e del Paesaggio lo scorso aprile all’Auditorium Parco della Musica di Roma, dedicato al verde in città e al paesaggio urbano, Annalisa Metta ha premiato il progetto vincitore, Garden-in, di Federica Pedone e Maria Minnucci. Il progetto ha come obiettivo la creazione di un’area dedicata alla natura visibilmente fruibile dal finestrino della propria vettura: “L’idea creativa – spiega Metta – non solo ha posto questioni ambientali importanti, immaginando di costruire un paesaggio che nel tempo possa essere abitato da molte forme di vita diverse, ma ha considerato il punto di vista dall’automobile, definendo perciò un paesaggio in movimento, non solo per le trasformazioni cui andrà incontro, ma anche perché potrà interagire con il movimento di chi lo osserva. È così che i nostri paesaggi ci parlano di nuovi desideri e di nuove visioni, di futuro”.