In Antartide, nel bel mezzo del mare di Weddell – una porzione di oceano quasi perennemente coperta da una spessa banchisa e da enormi piattaforme di ghiaccio galleggianti alla deriva, quelle che nel 1915 stritolarono a morte la nave dell’audace capitano Shackleton – c’è uno stranissimo buco. Una voragine grande quanto la Svizzera che periodicamente si apre e si richiude, come fosse lo sfiatatoio di un gigantesco cetaceo. Si chiama Maud Rise polynya (Maud Rise è il nome dell’altopiano oceanico nei dintorni del quale si forma il buco e polynya è un termine che deriva dal russo e che si usa, in gergo, proprio per riferirsi a un buco nel ghiaccio marino), è stata individuata per la prima volta negli anni settanta ed è poi riapparsa, con dimensioni diverse ma sempre nella stessa posizione, negli anni successivi e senza alcun’apparente regolarità.
Oggi, finalmente, un’équipe di scienziati della University of Southampton (e di altri istituti di ricerca) crede di aver risolto il mistero, identificando i processi fisici che portano alla formazione della polynya: i dettagli del loro lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Science Advances.
Per studiare il fenomeno, i ricercatori hanno analizzato da vicino quanto successo negli inverni australi del 2016 e del 2017, quando il buco è rimasto aperto per diverse settimane raggiungendo un’estensione massima di circa 80mila chilometri quadrati, cosa che non accadeva da tempo. “La polynya Maud Rise è stata scoperta negli anni settanta grazie al lancio dei primi satelliti per il monitoraggio delle regioni più meridionali dell’oceano Atlantico”, spiega Aditya Narayanan, post-doc a Southampton e primo autore della ricerca. “Si è ripresentata per diversi inverni consecutivi, dal 1974 al 1976, e all’epoca gli oceanografi hanno ipotizzato che si trattasse di un evento annuale. In realtà da allora il buco si è riaperto solo sporadicamente, e per brevi intervalli di tempo. Il 2017 è stato il primo momento, dagli avvistamenti degli anni settanta, in cui la polynya ha raggiunto dimensioni così importanti ed è rimasta aperta così a lungo“.
Per monitorare il buco e comprendere quali sono le dinamiche che portano alla sua formazione, gli scienziati hanno combinato i dati provenienti da osservazioni sul campo, quelli raccolti dai dispositivi applicati sui mammiferi marini, le osservazioni satellitari e quelli forniti da un modello computazionale che mappa lo stato dell’oceano: in questo modo hanno scoperto che nel 2016 e nel 2017 la corrente oceanica circolare intorno al mare di Weddell si è rafforzata, il che ha fatto sì che gli strati di acqua più profondi, più caldi e più salati rispetto a quelli superficiali, si siano mescolati con questi ultimi, aumentandone temperatura e salinità. Il fenomeno si chiama upwelling e aiuta a spiegare la fusione del ghiaccio marino (e di conseguenza la formazione del buco), dal momento che l’aumento della concentrazione di sale abbassa la temperatura di congelamento dell’acqua; tuttavia, da solo non è sufficiente a giustificare il tutto, perché “lo scioglimento del ghiaccio marino porta anche a un abbassamento della temperatura delle acque superficiali, che a sua volta dovrebbe interrompere il rimescolamento”, ha aggiunto Fabien Roquet, professore alla University of Gothenburg e co-autore del lavoro, “e quindi deve avvenire un altro processo affinché la polynya possa persistere. Deve esserci un ulteriore apporto di sale da qualche parte”.
Quale? A quanto pare, il responsabile di questo ulteriore apporto dei sali è il vento e il suo contributo al rimescolamento delle acque superficiali – un fenomeno noto come trasporto di Elkman: sarebbe proprio questo meccanismo a “spostare” in superficie il sale che si accumula sulla sommità del Maud Rise e rinforzare l’upwelling, portando alla formazione del buco. La scoperta è più che una semplice curiosità: le polynye, infatti, sono aree in cui avviene un enorme trasferimento di calore e di carbonio tra l’oceano e l’atmosfera, uno scambio così importante da poter influenzare l’equilibrio carbonico e le temperature di tutta la regione.
“L”impronta’ delle polynye”, conclude Sarah Gille, esperta della University of California, San Diego e co-autrice dello studio, “può rimanere visibile nelle acque anche diversi anni dopo la loro chiusura. Le polynye possono perfino cambiare le correnti oceaniche e il trasporto del calore verso le piattaforme continentali”.