Un Paese – anzi, una cultura – dalla storia millenaria impastata di profonda spiritualità e indicibili sofferenze, stretto nelle macerie post-sovietiche fra Oriente e Occidente, forse l’unico a poter (e per certi versi, cioè per la sua sicurezza e sopravvivenza, dover) parlare con i vicini Russia e Iran ma anche con i loro arcinemici, gli Stati Uniti. Impreziosito da sconvolgenti scrigni di quella spiritualità come i tanti monasteri della chiesa apostolica locale, la più antica della tradizione cristiana, in gran parte incastonati in quota. E spinto dalla voglia di trovare un posto nel complicato scacchiere geopolitico di oggi. C’è tanto, in certe zone tantissimo da fare, ma l’Armenia e il suo popolo meritano di farci innamorare.

Da qualche mese l’Armenia, che dispone di una piccola compagnia di bandiera non autorizzata a volare nell’Unione Europea, è un po’ più vicina all’Italia e all’Europa grazie a Wizz Air. Il vettore ungherese collega infatti il nostro paese con voli in partenza da Roma Fiumicino, Milano Malpensa e Venezia Marco Polo. Nel dettaglio: da Fiumicino a Yerevan con voli giornalieri dal lunedì al sabato. Dal 24 luglio anche la domenica. Da Malpensa a Yerevan esistono invece voli settimanali (lunedì, venerdì e sabato) mentre dallo scalo Marco Polo a quello della capitale armena, distante 15 minuti dal centro, il vettore propone 3-4 voli settimanali, martedì, mercoledì e domenica. Dal primo agosto anche il giovedì. Le altre rotte verso l’Armenia messe a disposizione da Wizz Air, sono da Abu Dhabi, Larnaca, Praga, Dortmund e Sofia. Nei primi sei mesi del 2023 sono già più di un milione i turisti arrivati nel paese, con un aumento del 30% rispetto allo stesso periodo del 2019 ultimo anno al quale ha senso comparare i flussi. Il 52% è costituito da russi, molti dei quali sono fuggiti nel Caucaso dopo l’inizio della guerra in Ucraina, l’11% dalla Georgia e il 6% dall’Iran: si capisce come i paesi europei siano l’obiettivo della nuova strategia del governo. Solo il 2% degli arrivi dei primi mesi dell’anno è riferibile a persone in arrivo da Francia e Germania. Di fatto, nonostante l’enorme diaspora, l’Armenia è un paese sconosciuto agli europei.

Il paese caucasico è stato privato dalle vicissitudini dei secoli di quella che chiama Armenia occidentale, cioè l’area più orientale dell’Anatolia. È accaduto in particolare a cavallo degli anni ‘20, dopo quella micidiale concentrazione di avvenimenti come la prima guerra mondiale, la rivoluzione bolscevica e il genocidio per mano dei turchi fra 1915 e 1922 che ha ucciso circa 1,5 milioni di persone, oggi base della nostalgica e lacerata identità armena. Come dimostra l’impressionante museo e memoriale appena fuori Yerevan, sulla spianata della collina di Dzidzernagapert: una fiamma perpetua circondata da 12 pilastri su di essa inclinati, a rappresentare le 12 province occidentali perdute o forzosamente cedute ai Giovani Turchi di Atatürk, e una lunga stele divisa in due sezioni. Una più grande e alta fino a 44 metri, l’Armenia contemporanea, e una più piccola separata dalla madrepatria da uno spazio che non potrà più ridursi. Sullo sfondo la vetta innevata dell’Ararat, montagna sacra per gli armeni che per pochi chilometri ricade però in territorio turco. Costruito nel 1967, il complesso ospita anche un parco della memoria e appunto una sede museale inaugurata nel 1995 ricca di documenti sul genocidio, che molti paesi non definiscono tale – l’Italia lo ha riconosciuto nel 2019.

Garni. Tempio (foto Simone Cosimi)

Garni. Tempio (foto Simone Cosimi)

 

Un posto potente da cui cercare di abbracciare tutta Yerevan dall’alto, con le sue contraddizioni, il suo centro storico tondeggiante tagliato dalle strade principali (Abovyan e Nalbandyan street e Meshorts Mashtots avenue, intitolata quest’ultima al geniale monaco inventore dell’alfabeto armeno) e quel che resta, dopo la lunga era sovietica, del tessuto urbano prima dell’annessione all’Urss. Da questo punto di vista l’esempio più significativo è l’antico quartiere di Kond, un pezzo della Yerevan di oltre un secolo fa incastonato appena fuori dal centro, fatto di case in legno e mattoni asimmetrici, porte colorate, sinagoghe crollate e occupate da decenni, grumi di fili elettrici in un salto nel tempo nel giro di poche centinaia di metri dalle affollate arterie cittadine o dalle trafficatissime piazze della Repubblica e dell’Opera. La capitale, che al pari del paese e dopo mille crisi economiche e sociali sta ricostruendo la sua identità fra zone più eleganti come quella delle ambasciate e l’insostituibile e ingombrante eredità sovietica, ha comunque molto da offrire: per esempio il Cafesjian Center situato a picco sul centro, in quella che è conosciuta come la Cascata, una monumentale scalinata in pietra calcarea progettata negli anni ’20 dall’architetto Alexander Tamanyan ma completata solo negli anni ’90, dopo il terremoto del 1988, grazie ai fondi del filantropo statunitense di origine armena (la diaspora conta 8 milioni di armeni nel mondo contro i 3 milioni di residenti nel paese) Gerar Cafesijian. Oggi è di fatto un intrigante centro d’arte contemporanea su più livelli. Oppure il Museo di storia dell’Armenia, dove iniziare a familiarizzare con le onnipresenti “khachkars”, le croci-stele in pietra, cippi artisticamente tipici della civiltà armena realizzati e collocati per le più diverse celebrazioni o avvenimenti i cui primi esempi risalgono al IX secolo, all’epoca dell’ennesima rinascita dopo la liberazione dagli arabi (l’Armenia persiana cadde sotto il califfato arabo dei Rashidun nel 645 d.C.) con il re cristiano Ashot I.

Il regno armeno era stato infatti il primo, secondo la leggenda nel 301 d.C. ma secondo ricostruzioni più fedeli nel 315, a riconoscere il cristianesimo come religione ufficiale con l’allora sovrano Tiridate III grazie all’intercessione di Gregorio detto l’Illuminatore, fondatore della chiesa apostolica armena e riconosciuto santo anche dalle chiese cattolica, copta e ortodossa. Chi volesse comprenderne di più, e capire condizioni e storia della millenaria chiesa locale, può visitare la città sacra di Echmiadzin, a 20 chilometri da Yerevan, sede del “catholicos”, il capo della chiesa apostolica armena, con la cattedrale patriarcale risalente proprio ai primi vagiti del cristianesimo nella regione e il battistero dove si praticano i battesimi: nessuno può toccare il battezzando per tre giorni dopo l’unzione con l’olio consacrato. Quel sacramento, per gli armeni, ne contiene altri due: comunione e cresima. Il “Vaticano” armeno è un complesso storico in parte in fase di ricostruzione e ampliamento a cui affiancare, nell’ennesimo salto nel tempo a cui questo tour vi sottoporrà, una visita ai resti della non troppo distante cattedrale di Zvartnots, patrimonio dell’umanità Unesco, costruita a partire dai primi decenni del VII secolo sul luogo in cui la leggenda indicava l’incontro fra Tiridate III e Gregorio l’Illuminatore. Oggi di questa singolare basilica a perimetro circolare che ricorda più un tempio rimane il colonnato interno della chiesa: lo sfondo dell’Ararat, gli aerei che decollano dal vicino aeroporto e il contesto industriale che circonda il sito mettono forse insieme tutti gli aspetti più affascinanti e contraddittori del paese.

Sevanavank, monastero (foto Simone Cosimi)

Sevanavank, monastero (foto Simone Cosimi)

 

Fuori dai ristoranti sofisticati della capitale, dove incrociare i sapori degli armeni rientrati dopo generazioni di diaspora (da segnare Mayrig, armeno-libanese, o il centralissimo Sherep all’angolo di piazza della Repubblica, non lontano da dove la statua di Lenin ha fatto spazio a un’aiuola) inizia quello che per molti è il vero viaggio nel cuore dell’Armenia. Dai 900 metri di quota di Yerevan si raggiungono infatti in pochi minuti di auto i 1.500/2.000 metri. La prima tappa è il tempio di Garni, in gran parte ricostruito, costruito da Tiridate I nel primo secolo d.C. in stile ellenistico e dedicato al dio persiano Mitra. L’edificio sorge su una roccia a picco sulla valle del fiume Azat, in una piccola gola segnata da formazioni rocciose note come “sinfonia delle pietre” fra i resti di terme romane e una preziosa stele che riporta iscrizioni cuneiformi del periodo urarteo, il più antico a cui la storia armena possa ricongiungersi sull’altopiano che ne è la culla, all’VIII secolo a.C., non dissimili da quelle individuate in molti altri luoghi dell’Asia minore seminali per la storia dell’uomo.

La seconda non può non essere il poco distante monastero di Geghard, il “monastero della lancia”, visto che qui venne a lungo conservata la lancia che ferì Cristo durante la crocifissione oggi a Echmiadzin. Scolpito in parte nella roccia a partire dal IV secolo d.C., fa parte anch’esso del patrimonio Unesco ed è composto da una serie di cappelle – la più antica risale al XII secolo – e la sua esplorazione è davvero un’esperienza trascendentale: dopo il “gavit”, lo spazio d’ingresso tipico delle chiese e dell’architettura armena, gli altri luoghi sacri si aprono uno dentro l’altro o uno sopra l’altro, sono impreziositi da incisioni e bassorilievi faunistici e floreali dal valore simbolico e allegorico, come quella costruita dalla famiglia Proshian. Cullati dalla sola luce arancione delle sottili candele da acquistare per pochi dram, in un dedalo di celle monastiche, di tombe dinastiche e perfino di una sorgente interna alla chiesa principale (che ne costituisce d’altronde il nucleo intorno al quale il solito Gregorio decise di costruirlo), si torna alla luce dei monti sicuri di non poter incrociare nulla di simile in altri luoghi del mondo.

Il giro prosegue poi verso il già citato lago Sevan e il suo monastero, più piccolo e nettamente più insidiato dal turismo organizzato ma non meno affascinante, magari percorrendo dopo la breve salita di qualche centinaio di scalini il sentiero da cui fotografarlo mentre si specchia nell’immensa superficie del “mare d’Armenia” – uno dei pochi per i quali negli ultimi anni si è riusciti a invertire il drastico calo del livello delle acque con una più stretta regolamentazione sui prelievi. Trekking, hiking, zipline, esperienze a contatto con la natura: l’Armenia è un posto ideale per gli amanti dei cammini e del turismo “slow” ma anche delle esperienze gastronomiche genuine. Sul Sevan vale per esempio la pena fare una sosta nel piccolo caseificio artigianale Mykyaelyan per assaggiare i suoi formaggi, da quelli tradizionali come il lori o il chanakh a quelli decisamente più stagionati e sperimentali, al cognac, al lampone, alle foglie di vite o quelli di fossa la cui usanza si tramanda da secoli. Una degustazione costa 7mila dram, più o meno 16 euro.

La

La “cascata” di Yerevan (foto Armenia Travel)

 

Dopo una breve sosta nel villaggio di Dilijan, nella provincia del Tavush al confine con l’Azerbaijan, la “Svizzera dell’Armenia” circondata dalle foreste e tutta tornanti, salite, discese ed edifici tipici in legno, ci si può concedere una notte nel silenzio dei 1.500 metri dell’Apaga Resort, località che guarda il piccolo centro di Yenokavan. E il giorno dopo, nell’ennesimo viaggio nel tempo e nella storia che l’Armenia garantisce, visitare con contegno e attenzione le comunità dei molokan armeni, nella spettacolare zona naturalistica sulla strada che collega Dilijan e la devastata Vanadzor, ex polo chimico-industriale sovietico abbandonato dopo il crollo dell’Urss e oggi cantiere a cielo aperto. A Fioletovo e Lermontovo vivono infatti alcune centinaia di laboriose persone di origine russa – gli uomini con lunghe barbe, le donne con un fazzoletto in testa, l’intercessione dei sacerdoti non esiste, il riferimento è l’Antico Testamento, trasferite – anzi, deportate ai confini dell’impero – nell’Ottocento ma già da secoli ostracizzate per il loro credo, per il pacifismo, per la possibilità che con le loro teorie influenzassero le classi contadine con le loro teorie rivoluzionarie, per il disprezzo dell’eccesso e dello sfarzo ortodossi. I “bevitori di latte” – dalla loro abitudine di consumare prodotti lattiero-caseari anche nel corso del lungo digiuno quaresimale prescritto dalla chiesa di Mosca deriva la dispregiativa definizione, la comunità si definisce cristiano spirituale – risalgono almeno alla fine del Cinquecento: all’epoca della Riforma si separarono infatti dal credo ortodosso ufficiale, ritenuto distante dalla vita degli ultimi e dei più semplici. Il definitivo distacco si consumò nel 1780 circa e da tempo il governo armeno ha riscoperto la necessità di tutelare questi antichi testimoni di un’epoca da riscoprire solo tuffandosi nei loro occhi celesti.

Il triangolo nel settentrione d’Armenia si chiude con la seconda città del paese, Gjumri, l’antica Alessandropoli sovietica poi ribattezzata in Leninakal alla morte del leader rivoluzionario: fra le più industrializzate del paese, fu quasi del tutto rasa al suolo dal terremoto del 1988. Ma gli anni non sembrano trascorsi invano, la ricostruzione – anche grazie alle risorse della diaspora – procede promettente e nei pressi è imprescindibile una visita al complesso di Marmashen, a due passi dal confine con la Turchia (chiuso al transito nella sua interezza) in tufo rosso. Ultima sagoma di luce che rimarrà impressa negli occhi prima delle due ore e mezza di strada verso lo scalo di Zvartnots e le circa quattro ore che separano Yerevan dall’Italia.