Nel cuore dell’isola di Bali, nel profondo della foresta che la sua tribù considera sacra, la guida indigena Putu Willy Suputra osserva sconsolata un gruppo di turisti che cerca di arrampicarsi su una lunga liana legnosa, imitando la gestualità delle scimmie. Suputra è marte della comunità nativa Adat Dalem Tamblingan, che abita la propaggine settentrionale di Bali sin dal 9° secolo e reclama il diritto di mettere un freno al turismo di massa e di proteggere l’area dell’Alas Mertajati Forest e del Lake Tamblingan.
“Queste cose mi fanno veramemte male – racconta all’agenzia di stampa Reuters –, quella liana alla fine morirà”. “Se decidiamo di entrare in questa foresta, camminare, vedere, ascoltare, e, sì, lasciare un’impronta è ciò che dovrebbe bastare – aggiunge. – Non si dovrebbe fare altro, come raccogliere e portare via qualcosa o appendersi a un albero”. “Molti – dice ancora il 27 enne – pensano solo secondo la ‘logica delle quattro esse’, sea, sun, sand and self (mare, sole, sabbia e se stessi, n. d. r.) e non si interessano minimamente della cultura della nostra popolazione”.
Da Venezia a Amsterdam, fino ai grandi eden naturali, molte località celebrate e costose stanno cercando di limitare il turismo, anche per proteggere i locali e la loro stessa cultura. Il tutto però avviene perlopiù con l’adozione di norme o tasse sufficinentemente lievi da non spaventare così tanto quei turisti che rimangono fonte considerevole di lavoro e introiti.
A Bali, una delle migliaia di isole dell’arcipelago indonesiano, la fine delle restrizioni da Covid ha riportato i grandi flussi – nel 2023 arriveranno 4,5 milioni di ospiti internazionali, cifra di poco superiore alla sua popolazione, stimata in 4,4 milioni di anime, ma ancora sotto i livelli pre-pandemia, quando si superava quota sei milioni. Il tutto incontra il favore di alcuni, ma anche le critiche di chi teme che il turismo di massa sia una minaccia per la cultura, la tradizione e gli stessi diritti della popolazione – prevalentemente induista.
L’area della foresta Alas Mertajati e del lago Tamblingan è a 3 ore scarse d’auto dal complesso di spa, centri yoga, resort marini e tourist shop di Bali sud, da decenni la mecca del turismo indonesiano, quella celebrata dal motto “eat, pray, love”. I gruppi di turisti che raggiungono questo territorio – la reggenza di Buleleng – di solito dormono in case vacanza o b&b, praticano trekking o cicloturismo, visitano i templi antichi o semplicemente si gustano la lentezza di un soggiorno tra le piantagioni di caffè e di chiodi di garofano.
L’Indonesia negli ultimi anni ha alzato considerevolmente i prezzi dei biglietti di ingresso di alcuni dei suoi siti turistici più battuti, come il parco nazionale di Komodo, quello famoso per il varano che è la più grande lucertola vivente, o il tempio buddista di Borobudur, a Giava. Un’azione che ha scatenato le proteste, in primis, dei lavoratori del turismo, spaventati dall’idea di non riuscire a mantenere il loro impiego, se i turisti si dovessero dileguare.
Putu Ardana, un anziano della comunità di Adat Dalem Tamblingan – è convinto che i nativi dovrebbero poter decidere quali tipologie di turisti possano visitare o meno le aree sacre. E aggiunge che andrebbe posta più enfasi su ricerca, educazione e cultura.
“Il turismo è un bonus. Se conserviamo le nostre tradizioni, la nostra cultura, le nostre fattorie, e continuiamo a fare bene quello che sappiamo fare meglio, le persone interessate a conoscere tutto questo verranno e continueranno a a farlo – dice il 67enne a Reuters –. Quello che mi preoccupa, e mi intristisce, è che gli operatori del turismo (a Bali sud) non sono effettivamente dell’isola, sono persone di Giacarta se non investitori stranieri”.
La comunità locale reclama il riconoscimento da parte del governo centrale del diritto d’uso, la facoltà di gestire la foresta e il lago come terre ancestrali. “E’ una corsa contro il tempo – spiega Ardana – Tanto prima otterremo questo riconoscimento, tanto meglio riusciremo ad intraprendere le azioni necessarie a preservare e salvare l’area”.
La “restituzione” delle terre alle comunità native è in atto in Indonesia dal 2016. Al momento il governo centrale ha restituito 153mila ettari a 108 comunità. Il presidente Joko Widodo aveva promesso cifre 80 volte superiori – 12,7 milioni di ettari, ma il processo sta andando a rilento. Le associazioni ambientaliste che operano nell’area sostengono che il procedimento scelto è farraginoso e facile preda di interferenze di natura politica e legale. Nel caso specifico, l’area è riconosciuta dalla stessa agenzia per la conservazione delle risorse naturali di Bali tra le aventi diritto alla restituzione, a patto che la comunità locale venga riconosciuta tra le indigene. Adat Dalem Tamblingan ha presentato la richiesta dal 2019, ma la risposta langue.
La foresta e il lago erano state precedentemente designate come aree protette, nelle quali il turismo deve dare la priorità alla conservazione: niente infrastrutture permanenti, visite limitate – “Di base – spiega il direttore dell’agenzia, Sumarsono, – non è per il turismo di massa”.
Un accordo globale siglato l’anno scorso a Montreal consacra il rispetto dei diritti delle popolazioni native come un elemento chiave per la conservazione dei territori. “Il turismo può portare alla distruzione di habitat naturali, in particolare delle foreste, e spesso delle stesse terre dove le comunità locali vivono”, spiega a Reuters Danny Marks, che insegna politica ambientale alla Dublin City University. “A Bali i progetti di sviluppo distruggono foreste e mangrovie, prosciugano aree umide, per generare spazio per albeghi, resort e centri commerciali, in Messico o in Vietnam la stessa cosa accade per costruire ferrovie o creare campi da golf”.
In molti casi i governi si sono sostituiti alle comunità locale nella decisione su quali fossero le aree da designare come parchi nazionali o aree protette, e in non poche di queste regioni i nativi sono stati trattati come occupanti abusivi e arrestati. “Ma se il turismo vuole essere sicuro che nessuno sia lasciato indietro, operatori e governi devono lavorare fianco a fianco con le comunità locali e con le organizzazioni non governative”, aggiunge Marks.
Rakhmat Hidayat, manager locale della non-profit Wri Indonesia raccomanda la creazione di forme di ecoeducational. Un turismo in cui le guide locali raccontino ai turisti la cultura locale, l’ecosistema, offrano di adottare alberi e contribuiscano alla promozione dei prodotti direttamente derivati dalla foresta, come il miele e le imbarcazioni in legno. “Le comunità potrebbero beneficiarne, continuando a vivere in armonia con la loro cultura tradizionale”.
Immerso nella nebbia delle sue montagne, Lake Tamblingan, che fornisce acqua a molti villaggi e resort dell’isola, è ritenuto sacro dalla comunità locale, convinta che le sue acque abbiano proprietà terapeutiche e addirittura salvavita. L’orografia e il meteo hanno contribuito alla generazione di leggende di dragoni e di pesci giganteschi che all’improvviso appaiono dalle acque cristalline, fino a causare schock e svenimenti ai pescatori. La foresta Alas Mertajati – 1339 ettari – che lo circonda – è stata mappata dalla gioventù locale come parte di un progetto mirato a riconnettere i giovani nativi con il loro stesso habitat. Come accadeva ai suoi avi, il 27enne Suputra, riconosce nella natura che lo circonda una parte della sua stessa identità e teme per il futuro dell’area.
“Mi sento in pace nella foresta. Riesco a guardare dentro di me in profondità. Ma un giorno avrò un figlio e un nipote, e sono preoccupato per quello che potrà accadere loro”.