Il concetto è antichissimo, ne parla Matteo nel suo Vangelo riportando le parole di Gesù che accusa scribi e farisei di rassomigliare a sepolcri imbiancati, belli fuori e pieni di putridume dentro. Gli anglosassoni lo hanno modernizzato in white whashing, dare una passata di bianco per nascondere le macchie che ci sono dietro. Poi il washing si è colorato, è diventato green, pink, rainbow, uno strumento di marketing per fare l’occhiolino a consumatori attenti all’ambiente, alla parità di genere, sensibili alle discriminazioni contro gli omosessuali.

Il problema non sono consumatori e le loro sensibilità, è cosa c’è dietro quel messaggio, se l’attenzione delle aziende all’ambiente e alle discriminazioni è reale e praticata oppure soltanto una mano di calce per conquistare acquirenti e vendere prodotti. Ora il greenwashing è arrivato a Sanremo e nelle orecchie di una dozzina di milioni di italiani grazie a Cosmo e al suo grido ”stop greenwashing” dal palco dell’Ariston.

L’aveva inventato nel 1983 l’ambientalista Jay Westerveld, dopo aver letto nel bagno del suo hotel nelle isole Fiji un cartellino che ormai si trova nei bagni di molti alberghi, nel quale si propone all’ospite di appendere l’asciugamano usato così da evitare il lavaggio con lo spreco di acqua e la dispersione di detersivi nell’ambiente. Westerveld rilevò che l’attenzione all’ambiente del suo albergatore era più opportunismo che vero impegno visto che si rilevava solo nei bagni e prometteva all’hotel cospicui risparmi, mentre in tutti gli altri luoghi e attività dell’albergo non c’era traccia di alcuna sensibilità ecologica.


Westerveld aveva visto giusto, perché non c’è dubbio che lavare asciugamani magari usati una sola volta non faccia bene all’ambiente, ma lo scopo è il tornaconto economico e magari un po’ di fumo negli occhi a chi all’ambiente tiene davvero e non ha l’esperienza di Westerveld per sfuggire all’inganno.

Il greenwashing è esattamente quello: un pizzico di verità, e a volte neanche quello, per dare un sapore ambientalista a una pietanza ambientalmente velenosa. Sono passati quarant’anni dal debutto del neologismo e altrettanti ce ne abbiamo messi per capire che ci siamo infilati in un tunnel mortale per il genere umano, che quanto stiamo infliggendo al mondo che ci circonda ha il prezzo inestimabile della sopravvivenza. Siamo diventati consapevoli, molti di noi attenti, tanti anche impegnati a uscire da quel tunnel.


Gli appuntamenti di Kyoto e di Parigi hanno fissato tempi e obiettivi, governi e imprese annunciano impegni, i cittadini consumatori stanno diventando più esigenti. Presentarsi come green paga, in termini di consenso e di vendite, ma presentarsi come green senza esserlo è pericolosissimo perché può dare l’impressione che stiamo facendo quello che dobbiamo per affrontare il cambiamento climatico e la crisi ambientale mentre nella realtà non stiamo facendo nulla o troppo poco.


Il greenwashing è un problema politico e di psicologia collettiva, ma è sfuggente, difficile da afferrare e quindi da contrastare. Anche perché spesso non c’è dietro necessariamente malizia ma superficialità nella comunicazione, tanto che nel Regno Unito e poi in altri Paesi sono state create delle guide alla comunicazione relativa all’impatto ambientale per aiutare le imprese a non fare del greenwashing involontario.


La prima a dare dei parametri ufficiali è stata nel 1992 l’Agenzia di Protezione Ambientale degli Stati Uniti, qualche anno dopo ci ha pensato il governo di Londra pubblicando il Green Claims Code, altri Paesi sono seguiti. L’Italia no, ci si è affidati all’Autorità per la Concorrenza e per il Mercato e all’Autorità Garante per le Telecomunicazioni e, in maniera generica, se ne occupa il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale.


Un passo avanti importante nel nostro Paese è stato fatto nel novembre scorso con una ordinanza del Tribunale di Gorizia che ha accolto il ricorso della società milanese Alcantara contro la comunicazione della società Mika a proposito delle qualità ambientali del suo prodotto Dinamica descritta come la prima microfibra al 100% riciclabile, amica dell’ambiente e via elencando, affermazioni che il Tribunale di Gorizia ha ritenuto non sufficientemente suffragate. Il Tribunale ha affermato che “le dichiarazioni ambientali verdi devono essere chiare, veritiere, accurate e non fuorvianti, basate su dati scientifici presentati in modo comprensibile”.

Sono famosi i casi di alterazione dei software sulla rilevazione delle emissioni di alcune case automobilistiche tedesche, ma di green washing si sono macchiate numerosissime aziende (la pratica è cominciata negli anni ’60, molto prima che Jay Westerveld le desse un nome) soprattutto nel nuovo millennio, di pari passo con l’aumento della consavolezza dei consumatori, del controllo dei competitori e dell’attenzione dei governi. La Nestlè, per esempio, nel 1919 per aver sostenuto che il suo cioccolato provenisse da fonti sostenibili mentre non era in vigore nessuno standard ambientale nella catena di approvvigionamento, come lei molte altre aziende alimentari, soprattutto americane. Ryanair nel 2019 aveva affermato senza prove sufficienti di essere la linea aerea europea con il più basso livello di emissioni, la Hyundai aveva pubblicizzato una sua auto sostenendo che pulisse l’aria.

Uno dei casi più diffusi di greenwashing è collegato alla pratica cosiddetta di offsetting. In sostanza una azienda assicura di compensare una certa quantità di carbonio emesso impegnandosi a catturarne altrettanto in un luogo diverso, soprattutto attraverso la riforestazione, il problema è che spesso la misurazione del carbonio catturato è troppo generosa o non certificata. In un caso del genere è incappata anche l’Eni con il Luangwa Community Reforestation Project, nello Zambia, che avrebbe dovuto consentire di compensare 1,5 milioni di tonnellate di anidride carbonica ma che secondo le analisi di Greenpeace era notevolmente sovrastimata rispetto alle potenzialità del progetto.

Accorgersi del greenwashing non è facile, e questo lo rende più pericoloso. Quando una pubblicità o un’etichetta proclama che in quel prodotto c’è il 50% in più di materiale riciclato non vuol dire che la quota di riciclato è la metà ma magari che è passato dal 2% al 3%. L’affermazione è corretta ma è fuorviante.


Si attendono con ansia regole più precise per le etichette e le pubblicità, noi consumatori vogliamo sapere se quello che compriamo è verde davvero e se chi lo produce è impegnato a salvare il Pianeta o solo un sepolcro imbiancato.