I dati verranno comunicati il 20 di questo mese dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, ma possiamo fin da subito anticipare una tendenza: in Italia il ricorso al lavoro agile è in calo e non di poco. Rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, quando il lavoro in remoto e smart working era praticato da quattro milioni di persone, ora dovremmo essere molto più vicini ai tre milioni. Mentre c’è chi sperimenta la settimana corta di quattro giorni, ma con un’ora in più quotidiana, in una parte del Paese si respira aria di restaurazione, con buona pace dei vantaggi raggiunti in questi due anni in termini di qualità della vita dei dipendenti, risparmi su costi, consumi, emissioni. “Frenano pubblica amministrazione e piccole e medie imprese”, racconta Mariano Corso, professore in Gestione delle risorse umane e cofondatore dell’Osservatorio. “Lo smart working e il lavoro in remoto aumentano invece nelle grandi imprese, che da sempre fanno da apripista, arrivando ai picchi raggiunti durante la pandemia. Più che un ritorno al passato netto, rischiamo una spaccatura fra aziende di serie A e di serie B”.
Secondo un’indagine di Legambiente sulla mobilità del 2021, erano il 66% dei 23 milioni di lavoratori coloro che avrebbero voluto mantenere o arrivare ad un equilibrio diverso rispetto a prima recandosi in ufficio quando necessario oppure solo alcuni giorni della settimana. Poi c’è l’aspetto ambientale ed economico. Al Politecnico di Milano hanno fatto una valutazione sul costo di una postazione di lavoro. Avere la metà delle persone in ufficio, può portare per l’azienda ad una riduzione del 30% dei consumi a patto di diminuire le postazioni e gli spazi. Cosa che nella media non succede, visto che non c’è una vera razionalizzazione. Se ci fosse invece, si arriverebbe ad un risparmio complessivo di duemila euro all’anno a postazione, dei quali 500 euro legati alla climatizzazione. L’altra strada, che comunque ottimizza, è chiudere delle aree a giorni alterni per non doverle riscaldare.
Il conto reale, fra risparmi e caro bollette
Lato lavoratore, si tratterebbe di mille o mille e 200 euro risparmiati all’anno con due o tre giorni di smart working a settimana. Evitare lo spostamento casa-lavoro quotidianamente significa avere in tasca fra i 300 e i 400 euro che altrimenti andrebbero spesi per il carburante, ai quali vanno aggiunti i soldi necessari per fra fronte all’usura del veicolo, il prezzo dei parcheggi, i pedaggi. Con quattro milioni e mezzo di persone in smart working è calata di 1,8 milioni di tonnellate la CO2 emessa. Tornando ai livelli della pandemia, con 6,5 milioni di persone coinvolte tra smart working e lavoro remoto, diventano 2,5 milioni di tonnellate, grosso modo l’equivalente di quanto inquinano mezzo milione di persone in un anno. Il bacino potenziale è però di 8 milioni di lavoratori e tra 5 anni, grazie alla progressiva digitalizzazione di altri settori, potrebbero arrivare a 10 o 12 milioni. Significherebbe evitare una quantità di gas serra pari a quella emessa da una città come Milano.
Il costo delle utenze non era stato calcolato in precedenza, avendo avuto un impatto relativo. La crisi dei prezzi dell’energia ha cambiato le cose e d’inverno si traduce in costi alti per riscaldare la casa più a lungo se si lavora lì. “La nostra stima è di 250 euro in più – prosegue Corso – a fronte di un risparmio di mille euro. Con il lavoro totalmente in remoto si raddoppiano benefici e spese, con i primi che aumentano la distanza dalle seconde, oltre al risparmio per l’azienda che a quel punto ha solo degli spazi per riunioni saltuarie. Ma è una strada praticabile da pochi, per lo più nell’ambito del digitale, come ad esempio WordPress. Non si tratta più di smart working, ma organizzazioni del tutto virtuali”. In altri Paesi, come la Svizzera, si discute del rimborso delle bollette. Una via che per l’Osservatorio del Politecnico di Milano è nella logica del telelavoro non dello smart working. Bisognerebbe invece prendere in esame il beneficio condiviso fra dipendente e impresa, al di là di dove è meglio lavorare in un certo giorno. Quindi si potrebbero riconoscere dei bonus, come si trattasse di un accordo di produttività.
Il vecchio che avanza, di nuovo
I venti di restaurazione non appartengono solo a pubblica amministrazione e piccole e medie imprese. In generale anche la situazione del traffico nelle città sta tornando ai livelli di un tempo e questo riguarda tutti. “Il lockdown ha rappresentato una cesura, anche nelle abitudini di mobilità. Molti italiani sono più poveri e la crisi, associata alla cronica carenza di treni e tram, ci costringe a muoverci di meno, anche e soprattutto con il trasporto pubblico”, scrive Andrea Poggio, responsabile mobilità di Legambiente, nel secondo rapporto sullo stile degli spostamenti. “In compenso andiamo più a piedi, ma non per scelta ecologica, tanto è vero che usiamo di meno la bici, per paura del traffico ritornato ai livelli del 2019, peraltro con auto diventate più vecchie. Qualche segnale positivo solo dalle città che hanno saputo aumentare l’offerta di trasporto pubblico, promuovere gli abbonamenti e piste ciclabili, come Milano e Firenze”. E, aggiungiamo noi, Genova. Lì stanno sperimentando il trasporto pubblico gratuito in determinate fasce orarie.
Sembra quindi che molte delle soluzioni per cambiare la società emerse durante la pandemia siano state in parte accantonate, malgrado i campanelli d’allarme. Prendete ad esempio il fenomeno del grande addio al lavoro, “big quit” o “great resignation”, le persone non più disposte a tornare alla vita di prima e che quindi scelgono di dimettersi, o ancora chi non ha la possibilità di cambiare e resta cominciando a fare il meno possibile. Il cosiddetto abbandono silenzioso, quiet quitting.
Lo stesso lavoro a distanza è praticato in forme molto diverse. Ci sono aziende che vanno verso un reale smart working, nel quale si lavora per obiettivi non importa poi da dove o in quale fascia oraria, altre che invece adottano il telelavoro ma con forti rigidità, non cambiando il modello organizzativo e costringendo i dipendenti a timbrare il cartellino da remoto. “Difficile da stimare con precisione i numeri”, spiegano dal Politecnico di Milano, “ma è un’ennesima spaccatura che divide probabilmente le aziende a metà”.
A metà sono anche spaccati psicologicamente i lavoratori che hanno vissuto questi due anni in maniera opposta. “In due indagini successive abbiamo trovato un aumento della depressione nel 35% degli intervistati nei primi due anni di pandemia”, spiega Giorgia Cona, del dipartimento di psicologia e neuroscienza dell’Università di Padova. “Nel complesso la metà si era trovata a disagio. Anche a livello cognitivo c’è stato un calo della concentrazione. L’altra metà però non ha avuto problemi. Il sospetto è che ad essere più colpiti siano state le persone che erano già sole o avevano delle fragilità”. Sembra quasi lo specchio di quanto accade nel mondo delle aziende dove a guardare avanti sono le realtà più solide e strutturate mentre le altre scivolano indietro.
Sulle tre possibili vie, fra smart working basato su obiettivi e flessibilità, ritorno in ufficio e lavoro remoto controllato passo per passo, la terza è l’opzione peggiore stando agli esperti, riunendo il peggio delle prime due con pochi vantaggi se non il non doversi mettere in macchina. La più suscettibile alla disaffezione e a creare conflitti in casi estremi.
Il 26 agosto un dipendente olandese dell’azienda americana Chetu e residente a Diessen, è stato licenziato per essersi “rifiutato di lavorare” e per “insubordinazione”. L’Nl Times riporta che la persona si era rifiutato durante un corso di formazione a distanza di lasciare accesa la telecamera del computer e attivare la condivisione dello schermo in modo che fosse possibile controllare quel che faceva per nove ore consecutive al giorno. La questione è finita in tribunale e l’azienda a fine settembre è stata obbligata a risarcire l’ex dipendente con 75 mila euro.
L’occasione che rischiamo di perdere
In un Paese come il nostro, dove gli stipendi non cresco dagli anni Novanta, unico caso in Europa, non è una buona notizia che una parte delle imprese guardino al passato, perché significa sprecare l’ennesima occasione per innovare. La mancata crescita delle retribuzioni dagli anni Novanta, salvo alcuni settori di punta, è imputabile all’assenza di produttività, ovvero alla scarsa capacità di aggiornare strutture interne e processi per aumentare l’efficienza, dunque la qualità del prodotto e di conseguenza il suo valore e i margini di guadagno. Un processo di trasformazione per restare avanti che inevitabilmente necessita di una forza lavoro preparata, meno dozzinale, meglio retribuita. Banalizzando, una maggiore produttività a parità di materia prima impiegata, anche quando si tratta di costruire dei servizi, significa che sè fatto in modo che la sua trasformazione produca più valore, che di conseguenza permette di alzare gli stipendi. Cosa che hanno fatto in Germania dove gli stipendi in trent’anni circa sono cresciuti del 34%o in Francia dove sono aumentati del 31. Non a caso i nati dopo il 1986 hanno il reddito pro-capite più basso della storia italiana. E viene allora da chiedersi, a livello macro e microscopico, il senso di puntare ad un passato quando era carente e pieno di falle.
La versione di Musk, l’innovatore
Non siamo soli ad avere questa deriva che vuol cancellare la nuova normalità. Perfino nella tanto celebrata Silicon Valley c’è chi rema contro la corrente per cercare di trarre tutto il vantaggio possibile nell’immediato. “Due giorni obbligatori in ufficio equivale ad ottenere il 20% di dimissioni volontarie” scriveva a metà aprile l’imprenditore Jeson Calacanis a Elon Musk parlando della scalata a Twitter. La conversazione è emersa il 29 settembre, parte delle 151 pagine di messaggi e email di Musk finiti fra le carte processuali della causa nel Delaware per il passo indietro fatto nell’acquisizione del social network. Calacanis, classe 1970, è un imprenditore e blogger che ha cominciato all’epoca delle dot.com. E più tardi, quando lavorava alla Sequoia Capital, ha investito in startup del calibro di Uber e Robinhood. Ad Elon Musk si è proposto come futuro amministratore delegato di Twitter. Secondo i suoi calcoli, le entrate suddivise per il singolo dipendente sono state di “soli” 625mila dollari nel 2021, rispetto all’1,9 milioni di Google e ai 2,37 milioni di Apple. Ma se Musk tagliasse cinquemila posti di lavoro degli ottomila attuali, Twitter secondo lui potrebbe arrivare ad uno “standard più in linea con il settore” di 1,6 milioni. La prima mossa da fare sarebbe quella di costringere i lavoratori a tornare in ufficio portandoli alle dimissioni. “Un margine di miglioramento folle”, ha replicato Musk per poi lasciarsi andare a commenti poco lusinghieri nei confronti di Parag Agrawal, attualmente alla guida del social network. Subito dopo i due si sono resi conto che chiacchierare di tutto ciò attraverso il sistema di messaggistica di Twitter probabilmente non era l’idea migliore del mondo. Nel 2020 Jack Dorsey, al tempo a capo di Twitter, ha dato la possibilità ai dipendenti di svolgere i propri compiti da casa per sempre. In una città come San Francisco, dove i prezzi delle case sono stellari e molti lavoratori sono costretti a trascorrere ore nel traffico per raggiungere l’ufficio dalle zone più a buon mercato, quell’opportunità si è tradotta immediatamente in un aumento dello stipendio oltre che della qualità della vita per chi ha deciso di trasferirsi altrove. Di qui l’idea draconiana di Calacanis.
San Francisco, seguita da Londra, è una delle città nelle quali il ritorno negli uffici, imposto o meno, è meno frequente. Siamo intorno al 35% della loro capienza. Nella classifica pubblicata dal britannico Financial Times in questi giorni, all’estremo opposto ci sono Pechino e Shanghai a circa il 90%. Parigi è la prima in Europa con il 60%, poco sopra la media delle 12 metropoli prese in esame.
Armi da usare contro i dipendenti
Le armi usate per ridurre la forza lavoro erano altre fino a poco fa. A settembre Twilio, azienda che fornisce strumenti cloud per comunicare, ha deciso di lasciare a casa l’11% dei suoi impiegati offrendo tre mesi di indennità più una settimana aggiuntiva per ogni anno di anzianità. Ma ora, con il timore di una recessione imminente, si punta al ritorno in ufficio forzato per spingere fuori dalla porta. I trasferimenti forzati da una sede all’altra sono da sempre uno strumento per ridurre il numero della forza lavoro. Una leva trasversale che non guarda molto al merito ma punta solo alla riduzione del numero. In questo caso si tratta però di imporre uno spostamento temporale dal presente e possibile futuro, all’epoca pre-pandemia. Un passo indietro reso ancora più pesante dal raddoppio del carico di compiti da svolgere per chi resta, come accaduto dentro Snapchat ad agosto, proprio in virtù di un minor numero di dipendenti a parità di carico di lavoro.
In un’indagine di aprile su base mondiale della Automatic Data Processing (Adp), che opera nel campo delle risorse umane, il 74% degli intervistati ha dichiarato di tenere molto al nuovo equilibrio più flessibile dato dalla possibilità di svolgere i propri compiti da remoto. “La pandemia ha segnato un cambiamento di paradigma”, ha affermato Nela Richardson, capo economista di Adp. “La priorità viene data ad una gamma di fattori più ampia, profonda, di natura più personale”. Una sfida per i datori di lavoro che puntano a mantenere i propri dipendenti ma, come abbiamo visto, anche un’arma per chi li vuole cacciare con il vantaggio che le dimissioni volontarie non comportano indennizzo da parte dell’azienda.
A maggio Apple è passata da due giorni obbligatori in ufficio a tre, sollevando la protesta fra i dipendenti e l’addio fra gli altri di Ian Goodfellow, a capo della divisione di machine learning, una delle tecniche più usate nel settore dell’intelligenza artificiale (Ai). “Credo fermamente che una maggiore flessibilità sarebbe stata la migliore politica per il mio team“, avrebbe detto secondo la testata di The Verge. Subito dopo è entrato a far parte di DeepMind, colosso britannico nel campo dell’Ai dal 2015 di proprietà di Google. Ma non tutti hanno un curriculum simile a quello di Goodfellow, che dalla laurea all’Università di Stanford non ha fatto altro che inanellare incarichi prestigiosi. Chi non ha scelta, in una economia che arranca, rischia di trovarsi senza alternative se non accettare quel che avrebbe voluto evitare.
Nella ricerca intitolata Ceo Outlook della società di consulenza Kpmg, l’80% degli amministratori delegati starebbe sta considerando i tagli al personale e il 68% crede che l’ideale sarebbe eliminare il lavoro in remoto. Solo il 27% appoggia un equilibrio più flessibile. Esattamente il contrario dei dipendenti che si trovano sul fronte opposto in questo conflitto fra vecchia e nuova normalità.
Non tutte le compagnie però la pensano come Elon Musk, che a giugno ha minacciato il licenziamento dei dipendenti di Tesla che non si fossero presentati in ufficio. Dall’altra parte ci sono nomi di peso del calibro di Microsoft, Amazon, Airbnb, Slack, Uber, Twitter, Salesforce, Reddit, Zoom e Facebook che ad oggi non sembrano abbiano intenzione di fare retromarcia.
La deriva tafazziana
“Il problema oggi è tenere le persone, non cacciarle. Non sono a sufficienza in tanti settori, logistica alla manifattura“, sottolinea Corso. “Abbiamo forza lavoro in eccesso in aree come il sud e scarsità al nord, oltre a retribuzioni che non crescono. E pensare che c’è ancora chi lamenta l’assenza di voglia di lavorare facendo finta di non vedere che si offrono posizioni a stipendi troppo bassi, pubblica amministrazione compresa”.
Il caso dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl), agenzia governativa che si occupa fra le altre cose di tutela nei rapporti fra datore e dipendente e la sicurezza, è esemplare. Nelle scorse settimane negli ispettorati territoriali come Milano e Lodi sui 76 funzionari vincitori del concorso hanno preso servizio in 33. A Napoli sono stati 19 su 32, a Roma 15 su 52. Genova? Uno su 25, Udine e Pordenone uno su quattro, a Padova sei su 17 e via discorrendo. Ma il record è di Bologna, Belluno, Vicenza, Varese, Cremona e Prato dove non si è presentato nessuno.
L’Inl nel 2021 ha effettuato oltre 91 mila controlli grazie ai quali sono emersi 39 mila illeciti e irregolarità nella tutela di 480mila lavoratori, con un aumento dell’80% rispetto al 2020. Il ché ha portato al recupero di contributi e premi evasi per 1,1 miliardi di euro considerando anche l’attività dell’Inps e Inail. L’Ispettorato nazionale del lavoro ha 2294 ispettori sul campo.
Giornata internazionale donne e ragazze nella scienza
“Spiego il meteo in tv ma nessuno pensa che sono una scienziata”
di Paola Rosa Adragna
Secondo il sindacato Flp, Federazione Lavoratori Pubblici e Funzioni Pubbliche, il fatto che sempre più persone preferiscono non lavorare per l’amministrazione pubblica si deve da un lato ai livelli retributivi bassi, dall’altro nell’assenza di prospettive: chi vince oggi un concorso da funzionario fra 20 anni si troverà sostanzialmente con lo stesso stipendio.
Nel frattempo, in Italia stanno andando in pensione più persone rispetto a quelle che entrano nel mondo del lavoro, dove chi ha le migliori competenze finisce per emigrare all’estero. Usare il rientro in ufficio come leva per licenziare a basso costo sembra quindi una delle mosse meno lungimiranti, seconda solo al sottopagare le persone e al non innovare tagliando tutti i costi in una prospettiva a breve termine. Ma si sa, l’Italia ha tante eccellenze e anche tanti difetti, fra i quali il tafazzismo che ha radici ben più antiche dello smart working.