Con la tragedia della Marmolada, prima con la siccità eccezionale che assedia da mesi l’intero bacino del Po e mezza Italia, la crisi climatica è arrivata a casa nostra. La novità non è ovviamente nel fatto che il clima stia cambiando. Questo succede da decenni e dappertutto. Da decenni, per esempio, i ghiacciai alpini si stanno sfaldando e ritirando, le temperature medie in Italia come in tutto il mondo stanno crescendo, anche alle nostre latitudini temperate piove sempre di meno e invece si moltiplicano e intensificano le “bombe d’acqua”.
Sappiamo da decenni, noi italiani e in generale noi umani, qual è il problema, che dipende da cause “antropiche” e soprattutto dall’anidride carbonica liberata in atmosfera dall’uso di combustibili fossili. Sappiamo che per affrontarlo con efficacia – cioè per impedire che entro metà del secolo il riscaldamento globale si avvicini ai due gradi in più rispetto ai livelli preindustriali e così superi la soglia critica oltre la quale le sue conseguenze ambientali, sociali, economiche diventerebbero catastrofiche – serve azzerare al più presto l’utilizzo di carbone, petrolio e gas (questo in realtà molti politici fanno finta di non saperlo, specialmente in Italia…).
No, non è questa la novità. È che i fatti stanno cambiando la nostra percezione del climate change: lo vedevamo come una drammatica ma astratta minaccia incombente, cominciamo a viverlo come un dato esperienziale.
Questo cambiamento è doloroso ma può rivelarsi provvidenziale: perché l’uomo come ogni animale è fatto così, mette davvero in gioco le sue scelte, i suoi comportamenti solo se si sente colpito nella sicurezza, nel benessere.
Dunque nella corsa contro il tempo per fermare la curva della crisi climatica prima che s’impenni definitivamente, gli allarmi degli scienziati restano utilissimi e però contano, e conteranno sempre di più, anche le testimonianze dirette di persone comuni su come il clima che cambia stia danneggiando la loro vita di tutti i giorni.
Un esempio di questa comunicazione emozionale, “immersiva” ma corredata di dati scientifici, della crisi climatica, lo fornisce WeWorld con i “diari climatici”: resoconti nei quali cittadini qualunque annotano gli effetti osservati “in diretta” di fenomeni – inondazioni, siccità, desertificazione, erosione delle coste – collegati al climate change.
WeWorld, Ong impegnata in progetti per la tutela dei diritti di donne e bambini in 25 Paesi, con la campagna #ClimateOfChange sostenuta dalla Commissione Europea ha raccolto e analizzato in collaborazione con l’Università di Bologna decine di “diari climatici” tra Guatemala, Senegal, Cambogia e Kenya.
È stato, decisamente, un lavoro svolto “sul campo”: gli operatori di WeWorld insieme a un gruppo di ricercatrici del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Bologna, hanno incontrano e molti abitanti di aree tra le più colpite da disastri climatici nei quattro Paesi, rivolgendo loro domande sui mutamenti climatici osservati anno dopo anno. I cittadini intervistati sono diventati per WeWorld veri e propri reporter: hanno inviato aggiornamenti sul clima impazzito e trasmesso attraverso Whatsapp foto di case, spiagge, villaggi alluvionati o distruttivo dalle mareggiate.
I Paesi coinvolti in questo progetto non sono stati scelti a caso.
Il Guatemala è una tra le dieci nazioni del mondo più vulnerabili al cambiamento climatico per la deforestazione causata dalle monocolture di canna da zucchero e olio di palma, e per la violenza delle precipitazioni alternate a siccità. Anche la Cambogia è tra le vittime privilegiate della crisi climatica, con buona parte degli abitanti tuttora dipendente dall’agricoltura e dalla pesca, largamente basate sulle piogge.
In Senegal lo studio di WeWorld si è concentrato sull’area costiera di Saint-Louis e di Dakar, dove i “diari” registrano sia le conseguenze negative del “climate change” che l’intensificarsi di ulteriori fenomeni di aggressione all’ambiente: erosione delle coste dovuta all’abbattimento di alberi di cocco e cactus a favore dell’urbanizzazione, accumularsi di rifiuti e plastiche sulle spiagge, “colonizzazione” delle acque costiere da parte delle multinazionali della pesca che qui utilizzano il metodo a strascico che uno dei sistemi di pesca a più dannoso impatto ambientale. Infine il Kenya, dove alluvioni e siccità colpiscono l’intero Paese con crescente durezza e dove, in particolare, le regioni del nord e della costa sono interessate da processi accelerati di desertificazione dei suoli.
A lungo è circolata l’idea che la sensibilità ambientale sia una preoccupazione “da ricchi”, buona per chi ha la pancia piena. Forse almeno in parte è vero il contrario. Se si sperimenta a proprie spese cosa significhi la crisi climatica, cosa vogliano dire in generale i problemi ambientali, e questo capita di più nei Paesi più poveri e ai poveri di tutto il mondo, allora si è più motivati ad agire per difendere l’ambiente e stabilizzare il clima. Insomma: o impariamo in fretta che la crisi climatica è un’emergenza “umana” – umane le cause, umane le prime vittime -, oppure sarà impossibile venirne a capo. Che si abiti in Cambogia, in Guatemala o vicino alle Dolomiti.