I cambiamenti climatici si sono sempre manifestati nella storia del nostro pianeta ma il riscaldamento climatico a cui assistiamo da circa centocinquant’anni è anomalo perché innescato dall’uomo e dalle sue attività: si chiama effetto serra antropico e si aggiunge all’effetto serra naturale.

A partire dalla rivoluzione industriale che ha determinato un consumo crescente di carbonio, petrolio e gas naturale, l’uomo ha progressivamente immesso nell’atmosfera terrestre milioni di tonnellate di anidride carbonica (CO2) – un gas che si forma nei processi di combustione, dall’unione del carbonio contenuto nei combustibili fossili con due atomi di ossigeno presenti nell’aria – e altri gas serra. Inoltre, a seguito dell’abbattimento degli alberi – fondamentali dal momento che aiutano a regolare il clima assorbendo anidride carbonica e rilasciando ossigeno -, la CO2 si è accumulata sempre di più in atmosfera.

Il preludio di quello che è oggi diventato un eccessivo accumulamento lo registrò già verso la fine degli anni Cinquanta un ricercatore americano, Charles Keeling, che mise a punto uno strumento per misurare le concentrazioni di CO2 nell’aria in termini di parti per milione (ppm). Grazie a queste analisi fu evidente come l’anidride carbonica stesse progressivamente aumentando: all’epoca la concentrazione media di CO2 nell’atmosfera si attestava a 315 ppm, oggi, invece – secondo i dati contenuti nell’ultimo report del Global Climate Highlights -, è di 417 ppm.

 

Il progressivo aumento di CO2 in atmosfera venne ritenuto per lungo tempo poco rilevante, poi – verso la fine dello scorso millennio -, attraverso l’analisi di campioni di ghiaccio estratti in Antartide a 3/4mila metri di profondità, gli scienziati si accorsero che in migliaia di anni la concentrazione di CO2 era rimasta sempre tra 180 e 300 ppm, molto inferiore rispetto a quella attuale.

I problemi derivanti dall’accumulo di CO2 in atmosfera

La produzione in eccesso di anidride carbonica e la conseguente concentrazione in atmosfera provoca danni ambientali e climatici. Infatti, l’elevato accumulo di CO2 rende meno efficace l’azione dell’ozonosfera, la parte della stratosfera in cui si concentra la maggior parte dell’ozono – un gas serra necessario per la protezione della terra dall’azione nociva dei raggi ultravioletti -, e forma una cappa che impedisce la dispersione nello spazio, nelle ore notturne, del calore assorbito dalla terra durante il giorno. Si tratta del cosiddetto effetto serra, teorizzato per la prima volta nel 1822 dal matematico e fisico francese Jean Baptiste Joseph Fourier.

Il risultato di tutto ciò è anche il surriscaldamento del pianeta. Grazie all’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) sappiamo che dal 1880 a oggi la temperatura media globale è aumentata di circa 1.2°C rispetto ai livelli della fine del XIX secolo (secondo il rapporto dell’IPCC, l’anidride carbonica è responsabile del 63% del riscaldamento globale di origine antropica). Questo ha comportato eventi quali lo scioglimento delle calotte polari e il conseguente aumento del livello dei mari, nonché ondate di calore senza precedenti. Tutti fenomeni che, se non viene attuata un’importante riduzione delle emissioni di CO2, continueranno a intensificarsi. Ed è proprio con l’accrescere di questi eventi che gli scienziati hanno iniziato a sviluppare un pensiero comune: le emissioni di anidride carbonica devono essere ridotte prima che sia troppo tardi.

 

Le soluzioni per la decarbonizzazione e l’impegno di RINA

Sono molteplici le soluzioni a disposizione per favorire la decarbonizzazione ma non esiste una tecnologia vincente atta a raggiungere questo obiettivo: è necessario, infatti, adottare un mix di soluzioni. Tra le strategie da prendere in considerazione troviamo senz’altro l’uso delle energie rinnovabili – che però hanno anch’esse un impatto ambientale in termini di consumo di suolo e di potenziale alterazione degli ecosistemi e non sono risolutive nei settori non elettrificabili -, la piantumazione di alberi – attività che può fornire un contributo a compensare le emissioni di CO2 non abbattute – e, in questa fase transitoria, anche la cattura dell’anidride carbonica effettuata artificialmente.

La cosiddetta carbon capture prevede tipicamente la cattura degli ossidi di carbonio da un flusso di emissioni prima del loro rilascio nell’atmosfera, il sequestro degli ossidi catturati in uno stoccaggio geologico permanente (in questo caso si parla di carbon capture and sequestration, CCS) o il loro utilizzo in applicazioni commerciali o chimiche approvate (parliamo di carbon capture and utilisation, CCU, o, in caso di un mix tra le due destinazioni della CO2, di carbon capture, sequestration and utilisation, CCSU). Tra l’altro, esiste anche un’altra tecnologia per catturare direttamente la CO2 dall’aria atmosferica: la direct air capture (dac). L’attività di fotosintesi delle piante è la forma naturale di direct air capture.

 

Con l’obiettivo di favorire la decarbonizzazione, RINA è attiva in diversi progetti di carbon capture e di forestazione. In particolare, abbiamo recentemente avviato con Axpo uno studio di fattibilità sulla cattura dell’anidride carbonica di due centrali elettriche a ciclo combinato.

La società, tra l’altro, permette di conseguire diverse certificazioni volte ad attestare la gestione dei gas a effetto serra e il contributo alla lotta al cambiamento climatico.

 

Insomma, per combattere il riscaldamento globale è fondamentale intraprendere processi di decarbonizzazione scommettendo su tutti i mezzi a nostra disposizione: non esiste, infatti, un’unica tecnologia vincente che da sola ci possa fare raggiungere questo obiettivo.

In tutto questo l’importante è continuare a investire in tutti i settori con le misure più adatte per ciascuno di essi perché i costi del non fare saranno sempre più insostenibili. E lo stiamo già vedendo con i nostri occhi, anno dopo anno.

(*Ugo Salerno, Presidente e Amministratore Delegato di RINA)