La geoingegneria si dedica ai problemi climatici e propone soluzioni per contrastarli. Benché alcune di queste tecniche non siano recentissime, tornano di attualità sospinte anche da teorie complottiste che escludono quasi del tutto le verità scientifiche.
Le proposte tecnologiche, pure essendo di diversa entità, mirano per lo più alla manipolazione del clima e, tra queste, può essere citate la Solar Radiation Management (SRM) che tende alla riduzione della luce solare immettendo nell’atmosfera terrestre particelle di anidride solforosa. Continuando a citare i progetti più ambiziosi, una menzione la merita il miglioramento dell’albedo (la radiazione solare) attraverso materiali riflettenti da posizionare su tetti oppure su intere aree desertiche. Un’altra tecnica nota si basa sulle emissioni negative usando diversi metodi, tra i quali la cattura e lo stoccaggio del carbonio.
L’asticella delle proposte di geoingegneria viene spostata sempre più verso l’alto, fino ad arrivare al cloud seeding e alla disidratazione stratosferica. Metodi ancora in fase di studio anche per controindicazioni, costi e conseguenze.
La disidratazione della stratosfera
Il vapore acqueo è il gas serra naturale più abbondante ed è capace di trattenere il calore nell’atmosfera terrestre, ossia quell’involucro gassoso che si estende fino a 10.000 chilometri di altezza che è suddiviso in diverse zone, una delle quali è la stratosfera che, indicativamente, si situa tra i 20 e i 50 chilometri di altezza.
Qui subentra la proposta dell’Agenzia scientifica americana National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) pubblicata su Science Advances .
La NOAA, costola del dipartimento del Commercio degli Stati Uniti, si occupa principalmente di previsioni meteorologiche, fisica dell’atmosfera e monitoraggio dello spazio. Con la disidratazione, almeno in linea teorica, è possibile diminuire il vapore acqueo nella stratosfera spargendo particelle di ioduro di bismuto utili a formare nuvole e a causare precipitazioni con la tecnica del cloud seeding.
L’obiettivo di questa tecnica è di impedire al vapore acqueo di raggiungere la stratosfera. Il vapore stratosferico, secondo la NOAA, sarebbe corresponsabile, in misura del 30%, dell’aumento della temperatura media. L’idea è quella di disperdere particelle di 10 nanometri di diametro (centomillesimi di millimetro) di ioduro di bismuto in quelle zone del globo, le cui correnti ascensionali, riescono a raggiungere la stratosfera. Tra queste aree spicca l’Oceano Pacifico equatoriale occidentale. La disidratazione consentirebbe così lo sviluppo di precipitazioni che, verificandosi a quote più basse della stratosfera, la libererebbero dal vapore acqueo.
Le questioni irrisolte
L’idea della disidratazione della stratosfera non è passata inosservata negli ambienti scientifici e il dibattito che ne è emerso tende a considerare la tropopausa, ossia lo strato che separa la troposfera (la zona dell’atmosfera soggetta ai fenomeni meteorologici) dalla stratosfera il cui spessore varia a seconda della latitudine e dalle stagioni (indicativamente tra gli 8 e i 17 chilometri al di sopra della superficie terrestre) e la cui temperatura media è di circa 57 gradi sotto lo zero. In sostanza, l’immissione di ioduro di bismuto tende a trasformare il vapore acqueo in cristalli di ghiaccio.
Curiosamente, nel paper pubblicato su Science Advances, si legge che la disidratazione della stratosfera non è da considerare priva di effetti collaterali al cui proposito sarà necessario svolgere indagini più accurate. Semplificando l’intera questione delle conseguenze, non vi è la certezza che il ghiaccio, cadendo verso le masse d’aria a bassa quota, non possa evaporare raggiungendo la parte più esterna della troposfera e, di conseguenza, forse anche la stratosfera, vanificando così almeno in parte l’effetto della disidratazione.
D’altra parte, la NOAA ammette di non avere valutato attentamente questa evenienza e tende ad archiviarla sostenendo che: “potrebbero esserci soluzioni tecnologiche a tali problemi” che, peraltro, ritiene essere “secondari”. Tuttavia, conclude l’Agenzia americana, la disidratazione della stratosfera ha il pregio di permettere una migliore comprensione degli impatti del vapore acqueo anche attraverso continui monitoraggi. Il risultato di tutto ciò sarebbe, nel peggiore dei casi, la possibilità ragionata di valutare tecniche alternative per la riduzione delle emissioni di CO2.
Il cloud seeding
Il termine cloud seeding indica una tecnica mediante la quale si possono cambiare sia la quantità sia il tipo di precipitazioni attraverso la dispersione nelle nuvole di sostanze chimiche. Una tecnica che, per forma e intenti, è legata a stretto giro alla disidratazione della stratosfera, con la differenza che il cloud seeding è già stato messo in pratica.
La memoria porta negli Emirati Arabi Uniti dove, nell’aprile scorso, si sono verificati eventi che hanno condensato in una manciata di ore la quantità di piogge che normalmente cade in un anno. Un fatto anomalo che ha scatenato detrattori e negazionisti climatici che hanno additato il cloud seeding.
Quelle complottiste sono teorie che non trovano spazio nella realtà, considerando anche che gli Emirati Arabi Uniti, in collaborazione con gli Usa, hanno cominciato a sperimentare il cloud seeding durante la seconda metà degli anni Quaranta del secolo scorso.
Il National Center of Meteorology di Abu Dhabi è intervenuto per cercare di sedare gli animi, affidando al direttore generale Omar Al Yazeedi la diffusione di un comunicato, nel quale, viene precisato che il cloud seeding ha senso soltanto prima che si verifichino le precipitazioni e procedere all’inseminazione delle nuvole quando le piogge sono abbondanti non ha alcuna utilità. Un’opinione che può essere giudicata di parte, se non fosse che è stata corroborata da altri esperti del clima. Daniel Swain, scienziato del clima in forze all’Università della California, ha contemporaneamente assolto il cloud seeding, attribuendo invece al cambiamento climatico la causa delle alluvioni dello scorso aprile, come ha spiegato al The Guardian.
Gli impatti della geoingegneria
Come detto, le tecniche di disidratazione della stratosfera sono poco più che teoriche e sul loro funzionamento vige la più totale incertezza. Altrettanto, in definitiva, vale per il cloud seeding anche se è ben più rodato. Infatti, non è usato soltanto negli Emirati Arabi Uniti ma anche negli Stati Uniti e in Cina. A Pechino, per esempio, vi si è fatto ricorso per garantire che non piovesse durante la cerimonia d’apertura dei Giochi olimpici del 2008 ed è tradizione fare piovere prima di eventi nazionali, affinché il maltempo non rovini le cerimonie, come avviene annualmente in prossimità della giornata nazionale della Repubblica Popolare Cinese che si celebra il primo ottobre.
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Nonostante sia una tecnica più testata, la certezza che funzioni è ancora oggetto di studio. In poche parole, la prima obiezione sollevata dalla comunità scientifica si può sintetizzare in questo concetto: non vi è alcuna certezza che la pioggia causata dal cloud seeding non possa cadere naturalmente senza forzature. Una linea di pensiero sostenuta da diversi scienziati, tra i quali Fernando García e Guillermo Montero Martínez del dipartimento di Fisica dell’Instituto de Ciencias de la Atmósfera y Cambio Climático (Città del Messico), i quali, sono giunti a tale conclusione dopo avere osservato i dati delle attività di cloud seeding volute dal governo messicano tra il 1948 e il 1970. I due esperti, a marzo del 2023, hanno pubblicato uno studio nel quale vengono elencate diverse perplessità.
Tuttavia, l’immissione nell’atmosfera di ioduro d’argento tipica del cloud seeding – a patto che veramente sia utile per produrre piogge più abbondanti – avrebbe ricadute positive sia sull’agricoltura, sia sulla qualità dell’aria, quindi vantaggi di ordine economico e sanitario. Gli stessi vantaggi che, seppure su scale diverse, trarrebbero le popolazioni residenti nelle aree più aride del Pianeta, contenendo anche la desertificazione. Non da ultimo, controllare le precipitazioni consente un migliore monitoraggio dei fenomeni atmosferici e della reale utilità delle tecnologie di geoingegneria.
Tra gli svantaggi e i limiti principali figurano invece l’incertezza sull’utilità del cloud seeding che, secondo la scienza, va in qualche modo relativizzata. Prima di tutto, servirà del tempo per capire quali impatti avranno sull’ambiente e sull’uomo le particelle chimiche immesse nelle nubi che, legandosi alla pioggia, precipitano nelle falde acquifere e in quelle di superficie (tra fiumi, laghi e mari). Tuttavia, sempre prendendo per buona la sua efficacia, il cloud seeding non genera nuvole ma tende a fare aumentare la pioggia prodotta dalle nubi già esistenti. Ciò esigerebbe “capacità di stoccaggio” delle piogge per poterle usare nei momenti di siccità.
I costi del cloud seeding
La letteratura in materia è vasta e a tratti discordante. Tuttavia, esaminando i dati messi a disposizione dal governo del North Dakota (Stati Uniti), nella parte occidentale dello Stato, ipotizzando un aumento del 5% delle precipitazioni, il cloud seeding avrebbe un impatto positivo sulle coltivazioni per 21,2 milioni di dollari all’anno, ossia 9,19 dollari per acro coltivato. Riuscendo ad aumentare le piogge del 10% il beneficio salirebbe a 41,9 milioni di dollari (18,15 dollari per acro coltivato). La riduzione della grandine gioverebbe in ragione di ulteriori 6,9 milioni di dollari sul comparto agrario.
Tutto ciò significherebbe un rendimento economico pari a 53 dollari per ogni dollaro speso. Il costo del programma di cloud seeding è di 40 centesimi per acro e, calcola il governo dello Stato federato, le maggiori entrate fiscali potrebbero sfiorare il milione di dollari. In Texas è stato calcolato che, un programma di cloud seeding su vasta scala della durata di 5 o 6 mesi, avrebbe un costo che varia tra i 4 e i 5 centesimi di dollari per acro.
I costi variano a seconda dell’entità del progetto e del luogo in cui viene svolto. Gli Emirati Arabi Uniti, oltre a destinare diversi milioni alla ricerca, hanno iniettato 10,8 milioni in un recente progetto di cloud seeding.
Al di là degli aspetti economici che sono ovviamente rilevanti, ciò che emerge dalle comunità scientifiche che si interessano alle tecniche di geoingegneria, è resta tuttora l’incertezza riguardo ai potenziali rischi e alle conseguenze delle applicazioni ancora tutte da studiare.