Gli spazi occupati dagli esseri umani e dagli animali selvatici si sovrappongono sempre di più. Noi espandiamo i nostri insediamenti, le nostre città, le nostre attività produttive. Loro, a seconda dei casi, provano a riprendersi un po’ dello spazio che gli abbiamo sottratto in passato, conquistano nuove aree per effetto dei cambiamenti climatici, si espandono e si accrescono dopo che, colpevolmente, li abbiamo spostati dai loro luoghi d’origine; qualcuno subisce anche l’attrazione fatale delle nostre opulente città. In questi casi l’equazione è praticamente scontata: se la sovrapposizione tra esseri umani e animali selvatici cresce, la coesistenza diventa difficile e i conflitti aumentano. Ma quando vi è la necessità di trovare soluzioni concrete ai problemi di coesistenza con la fauna selvatica ecco che il conflitto si sposta tutto all’interno della nostra specie e innesca discussioni infinite tra posizioni spesso inconciliabili; agli estremi chi pretende una soluzione, qualunque essa sia, e chi è contro qualsiasi intervento, “tanto la natura farà il suo corso e rimetterà a posto tutto”.

Sui social network o in televisione il confronto, spesso ideologico e intriso di disinformazione, finisce per diventare uno scontro frontale tra fazioni opposte, togliendo qualsiasi spazio a una discussione seria su quali soluzioni tecniche efficaci possano essere adottate per costruire la coesistenza. È quello che succede quando si parla del controllo della fertilità per gli animali “problematici”, sovrabbondanti o inurbati, come alternativa all’abbattimento o alla cattura e soppressione; una soluzione di grande appeal in una società odierna sempre più attenta al benessere degli animali e, pertanto, sempre meno disponibile ad accettare l’utilizzo di metodi letali.

A chi non è capitato di sentirne parlare, per esempio a proposito dei cinghiali che entrano nelle nostre città o delle nutrie che scavando le tane indeboliscono gli argini dei fiumi? Appena c’è un problema con la fauna selvatica subito parte la diatriba abbattimento/sterilizzazione.

Una veloce ricerca sul web ed ecco che emergono le specie più disparate da rendere meno prolifiche: gabbiani, parrocchetti, scoiattoli grigi, orsi, lupi, cervi, daini, perfino i ratti, come in passato qualcuno ipotizzò di fare a Roma. Ma il cinghiale li batte tutti. Non bastavano gli effetti disastrosi di una popolazione ormai diventata debordante (danni all’agricoltura, incidenti stradali) e le sempre più diffuse scorribande nei nostri centri urbani: adesso è arrivata anche la peste suina africana. E le richieste di sterilizzazione fioccano, ormai non solo da parte del mondo animalista: c’è una pillola? Diamogliela!

I parrocchetti monaci e i rischi per la nostra salute

A questo punto viene spontaneo chiedersi per quale incomprensibile motivo, se è possibile risolvere il problema dei cinghiali con una pillola anticoncezionale, si debba scegliere di utilizzare un proiettile? Risposta: la pillola anticoncezionale non esiste, né in Italia né nel resto del mondo. Ma almeno una puntura anticoncezionale? Neanche quella. Non esiste in commercio alcun farmaco iniettabile in grado di sterilizzare definitivamente un cinghiale, nonostante qualche promettente sperimentazione fatta in passato.

L’unico modo certo che oggi abbiamo per sterilizzare per sempre i cinghiali “problematici” è farlo chirurgicamente, come si fa comunemente con i gatti, catturando ogni singolo animale e addormentandolo per permettere al medico veterinario di operare in tranquillità. Questo, in estrema sintesi, è quanto emerso nel recente Convegno internazionale sul tema tenutosi a York (UK) e organizzato dal Botstiber Institute, un istituto di ricerca americano la cui missione è diffondere l’utilizzo del controllo della fertilità come metodo per ridurre i conflitti tra esseri umani e fauna selvatica.

A York i massimi esperti mondiali si sono confrontati e hanno condiviso lo stato dell’arte sul controllo della fertilità nella fauna selvatica, cinghiale compreso, discutendo delle enormi difficoltà pratiche poste dall’utilizzo degli anticoncezionali iniettabili e degli ostacoli ancora da superare prima di arrivare a un farmaco che possa essere somministrato per via orale. L’incontro si è concluso con l’auspicio di avere un prodotto efficace, sperimentato e autorizzato per un utilizzo diffuso, possibilmente in forma di pillola, entro il 2040.

Fino a quando la pillola anticoncezionale per la fauna selvatica non diventerà una realtà, credo che dovremmo parlarne il meno possibile e smettere di proporla come una soluzione a portata di mano, pronta all’uso. Le persone che ci ascoltano o ci leggono non possono essere informate sugli ultimi sviluppi della ricerca scientifica e tendono a fidarsi di chi gli racconta le cose in televisione e sui social. Parlare tanto di una cosa che non esiste non la rende reale e parlarne a sproposito serve solo a ingannare chi ascolta, creando false aspettative. A dare concretezza a questa possibilità ci stanno pensando gli scienziati con le ricerche e gli esperimenti, che vanno sostenuti.

Come zoologo, non vedo l’ora di avere a disposizione la pillola sterilizzante e di leggere quattro o cinque (mica cento!) articoli scientifici che mi dimostrano dove e come ha funzionato. E quando sarà disponibile, sarò pronto a utilizzarla in tutti i casi in cui avrà un senso farlo, come su un’isola o in un’area recintata, dove il numero ridotto di animali rende la cosa fattibile e aumenta le possibilità di successo. Certo, difficilmente potrò utilizzarla dove gli animali, sebbene sterilizzati, continuerebbero fino alla fine dei loro giorni a provocare incidenti stradali, danni all’agricoltura o trasmettere malattie come la peste suina africana. Aspettiamo che ci siano fatti concreti, confermati dalla scienza, e teniamoci pronti a chiedere tutti a gran voce: “pi-llo-la! pi-llo-la! pi-llo-la!”

Andrea Monaco, zoologo ISPRA