L’onda green non torna indietro e sta investendo in pieno il settore tessile, industria considerata tra le più impattanti sull’ambiente. Spinto dai problemi creati dalla siccità (le aziende tessili consumano da sole 93 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, di cui 335 mila solo in Italia) e ora dalla crisi energetica, si stanno cercando velocemente soluzioni per ridurre il fabbisogno idrico e passare alle energie rinnovabili. Lo chiedono i consumatori e lo chiede il mercato. Ma si può trarre un beneficio economico da un approccio sostenibile? “La risposta è sì. Soprattutto per quelle aziende che hanno capito che la sostenibilità ambientale, economica e sociale, è un investimento che fa bene a tutto, anche agli affari”, spiega Francesca Rulli Ceo della società di servizi Process Factory e ideatrice di 4sustainability, un marchio che misura l’impatto ambientale e sociale delle filiere delle aziende della moda.
Negli ultimi mesi, Francesca Rulli ha visto gli imprenditori del tessile accelerare il processo verso la sostenibilità. I fattori sono diversi. Da una parte c’è la maggiore consapevolezza dimostrata dai consumatori che stanno ricollocando le loro scelte di acquisto su brand con ridotto impatto ambientale, che puntano cioè sulla tracciabilità dei materiali e rispettano l’etica sociale. “Dall’altra, c’è il mercato con le sue regole – spiega Francesca Rulli – e non c’è dubbio che i capitali nel mondo della moda si stanno spostando su progetti sostenibili. Per questo motivo, per molti imprenditori legati commercialmente a grandi brand, la sostenibilità è diventata una scelta obbligata. Anzi, ineludibile”.
Come funziona 4sustainability?
“Quando un’azienda tessile decide di presentarsi sul mercato come azienda sostenibile, inizia un processo che avrà un impatto sul processo produttivo. Innanzitutto, analizziamo le sei dimensioni che secondo la normativa, qualificano la filiera:
- la scelta delle materie prime;
- le sostanze chimiche utilizzate ad esempio per tingere o smacchiare i tessuti;
- la tracciabilità del prodotto;
- la circolarità, ossia la capacità di quel capo di abbigliamento o accessorio di essere riciclato;
- la gestione di acqua, energia e rifiuti;
- la sicurezza dell’ambiente di lavoro e dei dipendenti.
Una volta stabilite le tossicità (misurate secondo parametri stabiliti per legge) viene proposta una roadmap per ridurre l’impatto ambientale. I costi per avviare il processo di compatibilità ambientale ovviamente variano secondo la dimensione dell’azienda”.
Gli standard di riferimento sono chiari?
“Passi avanti sono stati fatti parecchi per evitare fenomeni come green e social washing e oggi abbiamo metodi e strumenti per lavorare su tutti i temi chiave della sostenibilità. I risultati positivi del cambiamento, come la riduzione del costo dell’energia o lo spreco d’acqua, sono evidenti in tempi brevi, per altri serve più tempo. Trasformare un impianto tessile significa anche cambiare le ricette di produzione. Ma quello che notiamo subito è il cambio complessivo di mentalità da parte degli imprenditori. Si rendono conto che un processo virtuoso è anche il più economico”.
Però i costi della materie prima continuano a salire così come i prezzi dell’energia. In questo periodo storico i marchi del fashion sono davvero così decisi ad impegnarsi sul fronte della sostenibilità?
“Sì, perché rientra in una logica di mercato. È un processo virtuoso globale che attraverso la moda si rimette in moto: nasce dall’incontro tra le aziende che diventano più sostenibili e i consumatori che diventano più consapevoli e che scelgono i brand che rendono visibili le loro scelte”.
Spesso però è difficile rintracciare quanti e quali aziende hanno partecipato davvero alla produzione di un solo capo di abbigliamento: viene definito sostenibile perché il brand finale lo è, ma in realtà non il resto della filiera.
“La materia è complessa e il mondo della moda e del tessile è molto frammentato. Per ridurre l’impatto ambientale bisogna agire con metodo coinvolgendo l’intera filiera, soprattutto a monte. Per questo la scommessa è che sempre più aziende, soprattutto quelle che si trovano a monte, si convertano alla produzione sostenibile: maggiore sarà il loro numero meglio sarà per il prodotto finale immesso sul mercato”.
Lei ha scritto un libro “Fashionisti consapevoli. Vademecum della moda sostenibile” in cui dà dieci consigli per i consumatori che vogliono abbassare l’impronta idrica del loro guardaroba. Quali sono?
“Domandiamoci intanto se davvero abbiamo bisogno di tutti gli oggetti che abbiamo nell’armadio? Sappiamo che il consumo d’acqua necessario a produrre quello che indossiamo cambia da prodotto a prodotto? Quante domande ci facciamo in fase di acquisto? È essenziale che sempre più consumatori si abituino a reperire le informazioni necessarie per scegliere consapevolmente cosa e come acquistare, adottando comportamenti più responsabili anche nella manutenzione successiva all’acquisto. Quanti più consumatori diverranno esigenti nelle loro richieste al mercato, tanti più brand cambieranno il loro modo di produrre, orientandosi a una maggior sostenibilità ambientale e sociale”.
Le generazioni più giovani, quelle più coinvolte nelle tematiche ambientali, sono anche i consumatori più attenti quando si tratta di scegliere capi di abbigliamento? “In realtà, per la maggior parte di loro le questioni ambientali non influenzano le scelte d’acquisto. Pur consapevoli dell’impatto negativo sull’ambiente della fast fashion, ossia quel modello di consumo di massa che vive sulla proposta continua di nuovi capi a prezzi ridotti, non sono però propensi a pagare un surplus per capi a contenuto maggiore di sostenibilità. È un paradosso, ma è chiaro che educare i giovani consumatori verso prodotti più spostenibili sarà uno dei temi più attuali per questo settore. Nel frattempo, confidiamo sulla moda dei modelli vintage. Mutare la sensibilità dei comsumatori può cominciare anche da un abito nuovo. Anzi riciclato”.