Uno degli effetti più deleteri del cambiamento climatico è certamente l’aumento della frequenza e dell’intensità degli eventi estremi, tra cui ondate di calore o di gelo, alluvioni, uragani, periodi di siccità, e così via. Oggi, uno studio condotto da un gruppo di ricercatori del Globe Institute alla University of Copenhagen, pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences, ha indagato qual è l’effetto di due di questi eventi estremi, cioè uragani e tsunami, e di altri due non legati ai cambiamenti climatici, cioè terremoti ed eruzioni vulcaniche, sul benessere di quasi 35mila specie animali. I risultati, come ci si aspettava, non sono incoraggianti: il 10% delle specie valutate è a rischio estinzione a causa di almeno uno di questi eventi, e per il 5,4% il rischio è considerato alto. C’è fortunatamente spazio per la speranza: gli autori del lavoro sottolineano infatti che con le giuste politiche di prevenzione e conservazione il rischio potrebbe essere fortemente mitigato. L’importante, però, è agire in fretta.
“Abbiamo identificato quali sono le specie a più alto rischio di estinzione a causa di eventi estremi naturali”, riassume Fernando Gonçalves, uno degli autori del lavoro, “ma non solo: abbiamo anche evidenziato che ci sono strategie in grado di prevenire queste estinzioni, tra cui, per esempio, programmi di riproduzione in cattività per aumentare le dimensioni delle popolazioni a rischio o il ricollocamento delle specie in altre regioni”. I ricercatori, in particolare, hanno sovrapposto su una mappa le occorrenze dei quattro eventi estremi considerati e la distribuzione di specie con un basso numero di esemplari che vivono in regioni molto piccole: incrociando i dati in questo modo hanno scoperto che 3722 specie (di rettili, anfibi, uccelli e mammiferi) sono a rischio estinzione perché vivono in regioni dove è probabile si verifichino uragani, terremoti, tsunami o eruzioni vulcaniche.
“La metà di queste specie”, dicono Jonas Geldman e Bo Dalsgaard, altri due autori dello studio, “sono considerate ‘ad alto rischio estinzione’ a causa di questi eventi, e la maggior parte di esse vive in regioni tropicali (specie in isole tropicali) dove in passato si sono già verificate altre estinzioni, specie dopo la colonizzazione da parte degli esseri umani”. Come dicevamo, siamo ancora in tempo per agire: i ricercatori suggeriscono per esempio di spostare le specie a rischio in altre aree e/o di promuoverne la riproduzione in cattività, come già avvenuto per una specie di pappagallo endemico solo nell’isola di Porto Rico. “Il pappagallo portoricano, che una volta era molto diffuso ma oggi è in pericolo di estinzione a causa degli uragani e di altre attività umane sull’isola”, dice ancora Gonçalves, “è protetto con l’allegamento in cattività e le operazioni di reintroduzione in tutto Porto Rico. Attività come queste sono proprio quelle che dovrebbero essere messe in campo per aumentare il numero di individui delle specie in pericolo e allontanare il rischio estinzione”.