“La sostenibilità è rispetto: per l’ambiente, per le persone, per l’economia. È un valore imprenditoriale, politico e culturale che si declina con tutto ciò con cui entra in contatto“, spiega Giuseppe Lavazza – presidente dell’azienda made in Torino produttrice di caffè – durante un’intervista per Green&Blue da Wimbledon. Il gruppo Lavazza è partner del torneo di tennis dal 2011 e quest’anno celebra i due decenni della Fondazione Giuseppe e Pericle Lavazza, attiva in diversi Paesi per generare sviluppo sostenibile attraverso la produzione di caffè.

Londra è una seconda capitale: in città c’è il loro primo flagship store all’estero e in questi giorni girano i taxi brandizzati con le nuove pubblicità dedicate a Jannik Sinner, ambassador del brand. Impossibile non notare uno degli italiani più famosi al mondo in questo momento: “Un vero numero uno, un’eccellenza non solo nel tennis che ci riempie di orgoglio”, dice Lavazza. Proprio in questa settimana finale di torneo, però, il prezzo del caffè sui mercati internazionali è aumentato ancora, raggiungendo valori mai visti. Il valore alla tonnellata della qualità Robusta ha raggiunto i 4490 dollari: l’anno scorso era a 2600 dollari a tonnellata, a inizio 2020 appena 1300.

Presidente, il caffè diventerà privilegio per pochi?

“Il caffè è da secoli una bevanda popolare e rimarrà tale, anche se i prezzi della materia prima stanno aumentando senza dare segno di rallentamento. Ma il caffè ha una storia lunghissima proprio grazie alla sua accessibilità: è un momento per mettere insieme le persone. Non è un caso che il caffè non abbia mai avuto un preciso status symbol: in Turchia era la bevanda degli incontri ufficiali, in Francia se lo litigavano i Re, in Italia è diventato popolare durante il Risorgimento. È di tutti. Fortunatamente oggi noi aziende produttrici, grazie alla tecnologia e agli investimenti, siamo ancora in grado di assorbire le fluttuazioni della materia prima”.

Perché il prezzo del caffè sale così tanto?

“La crisi ha almeno quattro ragioni: il cambiamento climatico, che provoca danni alle coltivazioni ovunque, dal Sud America all’Africa; il blocco del canale di Suez, che rende impossibile l’ingresso nel Mediterraneo delle merci e costringe i carichi a circumnavigare l’Africa; la guerra in Ucraina che ha cambiato gli equilibri geopolitici internazionali; e poi c’è un tema finanziario: il dollaro è forte e la crisi è così prolungata che ha attirato gli interessi di chi specula sul prezzo del caffè”.

Che tempi vede per l’uscita da questa “crisi”?

“Molti pensavano che già con il 2024 i prezzi sarebbero scesi, ma siamo destinati a vederli alti ancora per molto, probabilmente fino al 2025”.

Il costo per il trasporto internazionale dei chicchi quanto è aumentato?

“Le faccio un paragone: durante il Covid, quando l’intero pianeta era bloccato, il costo dello shipping era aumentato di dieci volte. Oggi il costo è superiore di quattro volte e i ritardi medi sono di un mese. Alcune zone, come tutta l’East Africa, rischiano di essere tagliate fuori a lungo”.

Il vostro mercato russo quanto valeva e quanto vale oggi?

“Ottanta milioni di euro, e ora zero, perché abbiamo deciso di tagliare ogni rapporto con la Russia di Putin. Era per noi un mercato importante, così come quello ucraino, che valeva circa 8 milioni ma oggi è bloccato dalla guerra”.

Arriviamo alla crisi per eccellenza: il cambiamento climatico come impatta le vostre attività?

“Almeno da vent’anni ci siamo accorti del cambiamento climatico nella filiera di produzione del caffè. Alluvioni, periodi troppo caldi, siccità e ovviamente pressione costante sulle tante possibili fragilità di un territorio o di una popolazione. In Colombia abbiamo visto da vicino gli effetti della ruggine del caffè, la Roya, un fungo devastante per la pianta, che si sta diffondendo più rapidamente a causa delle piogge intense e del caldo. In Vietnam si allungano i periodi di siccità, alternati con piogge senza fine. In Brasile le gelate. Per affrontare il problema ci vuole lucidità e lungimiranza: mitigare e affrontare con il giusto approccio il problema, sensibilizzando tutti gli attori della catena produttiva”.

Quali sono le possibili soluzioni?

“Intanto non bisogna aggredire nuovi territori per coltivare caffè, ma piuttosto trovare soluzioni per le zone dove già si coltiva, per consentire che si continui a produrre bene e anche di più. A volte bastano degli accorgimenti e una maggiore conoscenza delle tecniche corrette, altre volte è necessaria la tecnologia. Nel 2018 abbiamo mappato il codice genetico del caffè arabica, collaborando anche con Illy”.

Un concorrente?

“Sì, per dimostrare che queste iniziative sono pre-competitive. Esiste un istituto che si chiama World Coffee Research fondato da noi produttori di caffè che si occupa di garantire futuro alle piante del caffè. Bisogna studiare le ibridazioni, i cloni, le tante varianti di specie capaci di resistere al forte caldo, alla siccità o all’abbondanza d’acqua. La varietà è fondamentale per la qualità del caffè, per trovare aromi originali. La Fondazione Lavazza poi è lo strumento che abbiamo per portare queste “buone pratiche” e queste conoscenze nei luoghi più vulnerabili della coffee belt”.

Caraibi, Guatemala, Ecuador, ma anche Yemen, dove siete attivi dal 2021. Come si affronta un territorio del genere?

“In Yemen ci sono le tracce archeologiche delle prime caffetterie, ma oggi il Paese è devastato da una guerra che va avanti da anni. Abbiamo coinvolto migliaia di lavoratori, avviando il più grande vivaio del Paese. Il 60% delle persone raggiunte è donna e per la prima volta in Yemen delle produttrici sono state in grado di vendere direttamente i loro prodotti di qualità. Bisogna costruire una cultura del caffè anche attraverso l’empowerment femminile. Una cultura che arriva fino alle qualità come prodotto finito, altrimenti chi coltiva caffè rischia di essere schiacciato dagli intermediari”.

Anche in Colombia avete affrontato le cicatrici della guerra.

“Siamo andati a Meta, un dipartimento rurale isolato dalla guerra e in mano al narcotraffico, per portare uno strumento di sviluppo sostenibile. Ma abbiamo avviato progetti anche nella prima periferia di Medellín, con un sistema agro-forestale dove gli alberi da frutta attorno alle piante di caffè creano ombra, preservano la biodiversità e offrono frutti per la sussistenza della popolazione. Il caffè è un megafono di pace”.

La Fondazione ha fatto vent’anni. Obiettivi per i prossimi venti?

“Raddoppiare le persone coinvolte: oggi sono 180.000, sarà un enorme orgoglio arrivare a 360.000. Coinvolgendo nuovi Paesi, come il lavoro fatto a Cuba, ma anche lavorando nel nostro Paese”.

Torniamo in Europa, anzi a Bruxelles. Si è chiuso un Green deal, se ne aprirà probabilmente un altro. Avrà successo se…?

“Se la politica dialogherà con il sistema, con tutti gli stakeholders. Noi operatori dei diversi settori non siamo nemici ma anzi alleati, vogliamo la stessa cosa ovvero un Pianeta più sano, un ambiente più resiliente. Ma l’approccio top-down di questo Green deal ha portato ad alcuni cortocircuiti: il caffè, per esempio, è stato incluso nella regolamentazione contro la deforestazione. Secondo queste regole possiamo importare solo dai produttori capaci di garantire che non siano state abbattute nuove porzioni di foresta”.

Un principio più che giusto. Cosa non funziona, dal vostro punto di vista?

“La scelta è giusta, certamente. Nessuno che produce caffè vuole deforestare. Ma i requisiti sono impossibili da rispettare per moltissimi Paesi produttori di caffè. Solo il 20% dei produttori è pronto, 4,5 milioni di agricoltori su 12,5 milioni totali. 8 milioni sarebbero tagliati fuori dal commercio con l’Europa. In Brasile hanno un sistema di certificazione già avviato, ma pensate all’Etiopia o ad altri Paesi fragili: è impossibile per loro stare dietro alla burocrazia. Gli ambasciatori di 17 Paesi hanno mandato una lettera alla Commissione, ma non sono stati ascoltati. La cosa più incredibile sa qual è?”

Quale?

“Il caffè istantaneo non è incluso nella regolamentazione, ma è quello che dovrebbe destare più preoccupazione. Ha un codice doganale diverso, ed è stato lasciato fuori”.

Quando i trattori protestano contro contro l’Europa hanno ragione, quindi?

“Sono sicuramente un’indicatore di una situazione critica. L’Europa deve ascoltare e dialogare, parlando con i settori interessanti, evitando un approccio chiuso e sordo che rischia di rovinare i tanti traguardi raggiunti. La sostenibilità è rispetto, ogni azione deve esserlo, dalla protesta alla politica”.

Viviamo nell’epoca delle poli-crisi. Qual è la sua speranza per il futuro?

“Noi ci ripetiamo spesso un’espressione: umanizzare l’umanità. Il caffè è molto più di una tazzina: una bevanda di pace, è sempre l’inizio di una storia di rigenerazione. Vendiamo 33 miliardi di tazzine all’anno, dal 2010 il nostro fatturato è triplicato (3,1 miliardi di euro nel 2023, ndr): tutti gli anni riusciamo ad accumulare le risorse per poter promuovere la crescita e lo sviluppo sociale di chi si trova vicino a noi”.