Una pista da sci su tre minaccia i cosiddetti “rifugi climatici” delle specie d’alta quota, le preziose aree dove la biodiversità alpina è fatalmente indirizzata dalle conseguenze del global warming. Entro pochi decenni, i due terzi di questi potenziali scrigni di biodiversità saranno occupati dalle strutture adibite al divertimento dell’uomo nel periodo invernale. Nella lunga vigilia delle olimpiadi invernali di Milano-Cortina 2026, arriva da uno studio di Lipu e Università degli Studi di Milano, appena dalla rivista internazionale “Biological Conservation” un nuovo campanello d’allarme per gli animali d’alta quota, in primis pernice bianca e fringuello alpino: a minacciarli stavolta sono le stazioni sciistiche, con le quali le specie dovranno coesistere in aree che diventeranno sempre più cruciali negli scenari futuri, complice la crisi climatica in atto. Il perché è presto detto: se salgono di quota gli animali, alla ricerca di temperature in linea con la loro etologia, lo faranno anche le piste da sci, alla ricerca di neve naturale o delle condizioni ideali per la neve artificiale. E ci sarà posto per gli uni e le altre? Non secondo i ricercatori: “le nuove piste – è la previsione dello studio – andranno a sovrapporsi sempre più ai rifugi climatici, creando una situazione di potenziale e pericoloso conflitto con la conservazione degli habitat e delle specie più minacciati dai cambiamenti climatici”.

Sull’aumento della sovrapposizione tra sci alpino e biodiversità d’alta quota i dubbi sono pochi: considerando le aree idonee per le piste da sci, si passerà dall’attuale 57% della superficie dei rifugi adatta alla realizzazione di piste, al 69%-72% del periodo 2041-2070. “Al momento – ribadisce lo studio – già una pista su tre minaccia un rifugio climatico, e in futuro questa situazione non potrà che peggiorare in assenza di adeguate politiche di indirizzo a causa dei cambiamenti climatici”.

“Proteggere le montagne per proteggere la biodiversità”

La fragilità di sistemi ed ecosistemi di montagna è, del resto, uno dei grandi temi della contemporaneità. “Non possiamo permetterci, nella fase di crisi climatica che stiamo attraversando, di compromettere ulteriormente le nostre montagne, che garantiscono l’approvvigionamento idrico per le metà della popolazione mondiale che ci vive – dice Francesca Roseo, dottoranda in Scienze Ambientali presso l’Università Statale di Milano e prima autrice dello studio – Gli ecosistemi montani, molto diversificati in relazione alle condizioni climatiche, edafiche (suolo) e topografiche, sono molto sensibili al cambiamento climatico, al turismo di massa e allo sfruttamento delle loro risorse. Comprometterli vuol dire incidere sulla loro funzionalità e capacità di fornire servizi ecosistemici, mettendo a rischio la qualità della vita, quando non la sopravvivenza stessa, di molte persone anche in pianura.

“Questa fotografia delle Alpi – prosegue – deve dettare rapide azioni concrete. Non si tratta solo di proteggere specie iconiche come la pernice bianca, ma anche le nostre società, che dipendono da ecosistemi in salute, in grado di fornire beni e servizi imprescindibili. Come? Trovando soluzioni alternative al passato per mantenere l’economia di valle senza compromettere gli ecosistemi montani”. “Registriamo, in montagna, un tasso di riscaldamento superiore alla media e drastiche modifiche del paesaggio dovute al cambiamento climatico e alle attività umane – annota Claudio Celada, Direttore Conservazione di Lipu/BirdLife Italia – Gli sport invernali sono spesso praticati in fragili ecosistemi alpini, anche essi vulnerabili ai cambiamenti climatici e rischiano di incidere sempre di più sui rifugi climatici. È necessario valutare le attuali misure di gestione e conservazione di tutte quelle aree rifugio che, pur ricadendo al di fuori delle aree protette, garantiscono la tutela della biodiversità d’alta quota”.

Cambiamento climatico e specie alpine: quando si perde la “bussola”

E tra le specie più sensibili alle variazioni climatiche e ambientali ci sono gli uccelli, considerati indicatori importanti della ecosistemica alpina: in luoghi, vale a dire, dove l’elevato tasso di riscaldamento climatico si associa a una forte pressione antropica, come testimoniano le criticità legate al cosiddetto “overtourism”.

Del resto, profonde modifiche delle abitudini di svernamento e degli areali di distribuzione di diverse specie migratrici sono già state monitorate all’interno di progetti come “Migrandata”, che – utilizzando il monte Cervati, in Campania, come caso di studio – ha certificato il disorientamento degli uccelli di fronte all’innalzamento del limite arboreo. Registrando, per esempio, una graduale anticipazione della partenza dai territori di svernamento per raggiungere prima i quartieri di nidificazione. E non sono poche le specie – ermellini, lepri e pernici bianche in primis – che pagano lo scotto della scarsa presenza di neve, con il paradosso di una muta invernale non sincronizzata con i colori di un inverno tardivo. “Con conseguenze potenzialmente negative, visto che animali bianchi su prati verdi o distese marroni sono più individuabili dai predatori”, annota il naturalista Rosario Balestrieri, presidente dell’associazione Ardea. Gli stessi ermellini, mascotte delle Olimpiadi invernali di Milano-Cortina, sono considerati a rischio: sin qui segnalati sull’arco alpino dai 1000 ai 3000 metri di quota, con una maggiore prevalenza sopra i 2000, stanno vedendo pericolosamente restringersi il loro habitat ideale. E la concorrenza delle piste da sci non sembra favorirli.