Servono più semplificazione, per esempio nelle procedure per ripulire gli alvei dei fiumi, più infrastrutture, su tutte le casse di espansione, e infine una maggiore coesione nella gestione dei territori affinché si pensi a strategie preventive contro la crisi del clima e disastri come quelli appena avvenuti in Emilia Romagna. Marco Casini, ingegnere ambientale, segretario generale dell’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino centrale, è in carica da soli sei mesi ma ha le idee molto chiare per come agire sia in termini di prevenzione degli impatti delle alluvioni, sia per contrastare gli effetti della siccità.
Nella tragedia dell’Emilia Romagna c’è chi punta il dito contro la crisi del clima e chi contro la mancata manutenzione e gestione dei territori. Qual è la sua opinione?
“La verità sta nel mezzo: è evidente che più il fenomeno è intenso più possono crearsi danni e disservizi del genere. Di solito questi eventi hanno tempi di ritorno molto lunghi ma purtroppo a causa del cambiamento climatico stanno diventando quasi “normali” ogni anno. Allo stesso tempo c’è un problema, in Italia, di difficoltà nella gestione dei territori, dei fiumi, le dighe e le infrastrutture. Manca semplificazione”.
Per esempio nella gestione dei fiumi?
“Mi riferisco alle procedure di intervento. Sfangare una diga è complicato. Togliere i sedimenti dal fiume è difficile: quando li tiri fuori, allora sono considerati rifiuti. Dove li metti, come li gestisci? Ecco, per tutto questo soffriamo di norme che rendono molto arduo l’intervento immediato di fosse, dighe e altro. Serve quindi maggiore semplificazione. Siamo bravissimi a creare regole ma che poi ci impediscono di fare le cose. Così finisce che i problemi si accumulano e nel tempo poi diventa complicatissimo gestirli. Azioni che dovrebbero essere di normale amministrazione diventano impossibili, i problemi si sommano e poi arriva la pioggia, che ora è più intensa e frequente, e sappiamo cosa succede”.
Argini bassi e danneggiati dagli animali, sedimenti, vegetazione. Tutti “ostacoli” su cui non si ragiona abbastanza?
“Diciamo che è complesso. Pensiamo a cosa è successo ora: la pioggia cade copiosa e trova un terreno molto secco dopo la siccità e questo non assorbe, si comporta come un asfalto. Oppure se è molto bagnato, come dopo le alluvioni di inizio maggio, fa la stessa cosa: non lo assorbe perché già saturo. Sono tutte condizioni favorevoli a far esondare i fiumi. Dunque è evidente che l’unica possibilità è aumentare la buona manutenzione, anche se non è detto che poi i fiumi possano comunque reggere il fenomeno. Gli argini devono poter non crollare, vanno rinforzati, ma hanno problemi strutturali di altezze, di animali che con le tane li logorano. Poi c’è il problema di sedimenti che si accumulano nel tempo e l’alveo si riduce. Infine, aggravio di questo periodo, la vegetazione sulle sponde: a primavera è rigogliosa e crea un freno all’acqua e il corso esonda. Tutte queste criticità magari vengono osservate sul reticolo primario, ma difficilmente su quello secondario come canali, fossi, piccoli corsi, che poi in sette o otto ore di pioggia estrema rigurgitano. Se a tutto questo si aggiunge un consumo di suolo gigantesco in Italia, con primato a livello europeo dato che l’anno scorso si parlava di quasi settanta mila chilometri quadrati, due metri quadri al secondo di suolo consumato, è ovvio che peggiora sia l’assorbimento delle acque sia la possibilità di gestirle preventivamente”.
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Dunque cosa servirebbe?
“Chiaramente più manutenzione ma per me quello che manca sempre di più in ottica di fenomeni meteo più complessi e gravi sono le casse di espansione. O il fiume ha dei muraglioni antichi, come a Roma, oppure devi avere delle zone franche in cui in casi di esondazione si possa consentire al fiume di esondare in sicurezza. Inoltre, le casse di espansione hanno una duplice funzione: accumulano anche acqua da eventualmente usare in periodi di siccità”.
Chi dovrebbe gestire tutto questo?
“Le Regioni. Insieme ai consorzi di bonifica regionali e di intesa con i vari comuni. Per carità, poi se si guarda a livello nazionale, di governo, c’è un discorso di fondi e politiche. Ma sono le regioni come interventi e priorità a doversene occupare”.
Anche nell’Appennino Centrale di cui si occupa l’autorità che dirige? E a proposito: in che condizioni è l’Appennino ora?
“Noi affrontiamo quattro temi: pianificazione e difesa del rischio idraulico, di quello geologico, le frane, la tutela della gestione acque e l’osservatorio sulla siccità. Ci occupiamo di pianificazione, indicando priorità e rischi che poi sono le regioni a dover seguire grazie a progetti e interventi. L’Appennino è una zona fragile, sismica, di cui prendersi cura. Su un totale di 600mila frane censite in Italia oltre 150mila sono nel nostro territorio che è di circa 45mila chilometri quadrati tra parti di Emilia e Toscana, Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo e Molise. Abbiamo tanti fiumi in cui è necessario intervenire. Uno su tutti per esempio è il Misa nelle Marche: bisogna metterci le mani, necessita di manutenzione che dovrebbe essere continua, fattore che diventa più pressante se le condizioni meteorologiche cambiano come sta avvenendo”.
A livello nazionale crede che la politica se ne stia occupando a dovere?
“Il tema, per via della crisi climatica, ora viene affrontato in modo diverso rispetto al passato. La frequenza degli eventi estremi è tale che è difficile lavarsene le mani: non sono fenomeni che tornano dopo anni, ma dopo mesi, eventi che capitano più volte all’interno della stessa gestione politica. Sulla siccità ora c’è una cabina di regia e si è iniziato un lavoro su lungo periodo: l’obiettivo è fare una ricognizione delle criticità, i costi e gli interventi necessari per un quadro conoscitivo che è sempre mancato. Il problema è che spesso ci sono tanti soggetti che si parlano poco e sono poco coesi, con diversi problemi di risorse. Lo stesso vale per il dissesto idrogeologico”.
Infine, quali sono gli interventi di prevenzione più urgenti in vista dell’immediato futuro?
“Adesso le piogge, al di là dei tragici danni, hanno ricaricato in parte le falde e gli invasi in alcune zone del Paese. I livelli si sono alzati. Ora si tratta di capire nell’immediato cosa accadrà a livello di temperature in estate: è chiaro che se fra poco arriveranno ancora quaranta gradi e poca acqua avremo problemi. Dunque il tema è: sappiamo che questi fenomeni si ripresentano, sono presenti, bisogna intervenire. Come? Sistemare gli invasi pieni di fango, progettare casse di espansione, recuperare le acque reflue, ipotizzare nuovi desalinizzatori e tutta una serie di altri interventi necessari. Dobbiamo poter gestire l’acqua che arriva in modo da non lavorare sempre in emergenza. Per tutto questo dobbiamo lavorare da subito, prima ad esempio che il prossimo inverno torni a mancare la neve, la nostra grande riserva naturale. Oggi abbiamo infrastrutture di rete che perdono il 40% dell’acqua o altre come le dighe che sono peggiori di vent’anni fa: serve la manutenzione, il controllo. Direi che è evidente che dobbiamo aumentare ovunque la resilienza per avere più frecce al nostro arco. O sarà sempre più dura”.