Il mondo avrà sempre più fame e ha già sete: le proiezioni demografiche indicano che per il 2050 la produzione globale di cibo dovrà raddoppiare rispetto all’oggi. E bisognerà farlo in modo sostenibile, cosa che rende ancora più difficile questa sfida cruciale per l’umanità. Un modo per conciliare l’aumento nella produzione di cibo e la tutela dell’ambiente e della biodiversità è agire sull’irrigazione: oggi il 40% del cibo è prodotto dall’agricoltura irrigata, che occupa il 22% delle terre coltivate e conta per il 90% del consumo antropogenico d’acqua dolce. La sfida per sfamare il mondo in modo “verde” non è ampliare l’estensione delle terre agricole, visto che ciò danneggerebbe gli ecosistemi naturali e la biodiversità, ma è intensificare la produzione agricola in modo sostenibile, aumentando la percentuale delle terre agricole irrigate in modo efficiente. Uno studio pubblicato su Environmental Research da Lorenzo Rosa, 29 anni, direttore della ricerca del dipartimento di ecologia globale al Carnegie Institution for Science di Stanford, mostra in che modo migliorare l’efficienza dell’uso d’acqua nell’agricoltura può salvare sia le nostre tavole che il Pianeta.

Qual è il problema principale a cui si sta applicando?

“Oggi siamo 7,9 miliardi, e si stima che nel 2050 saremo come minimo 9 miliardi. E tutti vorranno mangiare uova, carne, latte, formaggio come in Occidente. Quindi bisognerà raddoppiare la produzione di cibo. Il problema è che già oggi stiamo usando tantissima terra, quasi tutta la terra utile per l’agricoltura. E l’agricoltura è già oggi il settore che ha più impatto sull’ambiente: conta per il 30% delle emissioni, ha il più grande uso di acqua e di terra, ed è il maggior fattore nella perdita di biodiversità. Quindi un’idea è di usare per l’agricoltura le terre che già usiamo e massimizzarne la resa: in tantissime zone non si produce in modo massimizzato, come si fa invece in Europa e negli Stati Uniti. Per esempio nell’Est Europa – in Ucraina, ma anche in Russia – o nell’Africa subsahariana le rese non sono massimizzate perché mancano l’acqua e i nutrienti. Quindi, se noi sappiamo dove implementare le politiche per portare acqua con l’irrigazione, possiamo aumentare la resa agricola e quindi evitare l’espansione dell’agricoltura con basse rese in polmoni verdi – come quelli nell’Amazzonia, in Indonesia, o nella foresta del Congo – che ci aiutano a mitigare il cambiamento climatico assorbendo la CO2, e in più forniscono servizi ecosistemici come la regolazione del ciclo dell’acqua e la difesa della biodiversità”.

Cosa si intende con “intensificazione sostenibile dell’agricoltura”?

“Noi studiamo come si può aumentare la produzione agricola facendo in modo che si usi l’acqua che viene rinnovata ogni anno con il ciclo idrologico. Quindi l’irrigazione non deve sottrarre troppa acqua ai “deflussi minimi vitali” dei fiumi (ovvero la portata che garantisce il mantenimento delle caratteristiche chimico-fisiche dei corsi d’acqua), né deve ridurre eccessivamente i livelli delle falde acquifere”.

Con questo approccio lei ha stilato una mappa globale che mostra le aree che più hanno potenziale, se si agisce sull’irrigazione, per un incremento sostenibile dell’agricoltura…

“Per tutte le aree del Pianeta abbiamo considerato l’uso del suolo, il tipo di coltura, la sua necessità giornaliera d’acqua, in base a quando viene piantata e raccolta e in base alla temperatura in quella zona. Questo ci dice quanta acqua serve a quelle terre agricole. Sappiamo quanta acqua arriva dalle precipitazioni, e quindi sappiamo anche quanta acqua manca alla pianta per evitare di crescere in condizioni di stress idrico. E quest’acqua mancante deve arrivare dall’irrigazione. Poi siamo andati a vedere quanta acqua è disponibile nell’ambiente, nei fiumi, nei laghi, negli acquiferi, in modo sostenibile, quindi considerando i deflussi minimi vitali. E quindi localmente abbiamo fatto questo bilancio idrologico tra la domanda d’acqua e la disponibilità d’acqua. Dove la disponibilità d’acqua sostenibile è maggiore della domanda, lì c’è potenziale per aumentare la produzione agricola in un certo periodo dell’anno. Anche perché la disponibilità d’acqua varia nel corso dell’anno: a gennaio ci può essere abbondanza d’acqua che però non è più disponibile a luglio, per cui la massimizzazione della produzione agricola dovrebbe immagazzinare l’acqua nei mesi buoni – ad esempio nelle dighe, che però sono in numero limitato e hanno un conflitto con l’uso per l’idroelettrico, o negli acquiferi – per poi usare il surplus quando serve”.

Ecco, perché sarà sempre più importante lo stoccaggio dell’acqua per uso agricolo?

“Bisogna capire che con il cambiamento climatico potremo magari avere la stessa quantità annuale di precipitazioni, ma invece di essere distribuita nei mesi in cui potrebbe servire di più per l’agricoltura, quell’acqua sarà magari distribuita tutta in un solo mese, magari prima dell’inizio della coltivazione. Ecco perché immagazzinare acqua sarà fondamentale. Il nuovo approccio è lo stoccaggio d’acqua sottoterra, negli acquiferi. Quando piove molto, si inondano questi terreni che – in quei periodi di forti piogge – di solito non sono coltivati, e quell’acqua filtrerà nell’acquifero. Da dove la si potrà poi pompare fuori nei periodi in cui serve. Qui in California, ad esempio, magari si ha solo una settimana di forte pioggia a gennaio, che crea inondazioni. Invece di lasciare fluire quest’acqua in mare, la si può portare, usando dei canali di irrigazione, nel campo quando questo non è coltivato: l’acqua filtrerà nell’acquifero e poi potrà essere estratta d’estate per far crescere le piante”.

Come si può migliorare l’irrigazione?

“Oggi esistono tre strategie principali per irrigare. La più antica, che risale a oltre 7000 anni fa ma è applicata ancora oggi in molte parti del mondo, è l’irrigazione di superficie, dove si inondano i campi. Come si fa con le risaie. Questo tipo di irrigazione non è sostenibile: si usa un grande volume d’acqua che poi evapora o si perde nell’ambiente e non è utilizzato in modo proficuo dalla coltura. L’efficienza è bassa, intorno al 10% o 20%. Poi c’è l’irrigazione a pioggia: l’acqua viene spruzzata sotto forma di goccioline. L’efficienza è intorno al 50% o 60%: quindi metà dell’acqua viene usata in modo utile per la crescita della pianta. Il tipo di irrigazione più efficiente è invece l’irrigazione a goccia, molto usata in Israele. Grazie a dei tubi, l’acqua arriva sopra ogni pianta. E i tubi possono essere anche interrati, in modo che l’acqua arivi direttamente alle radici senza evaporare. All’acqua si possono aggiungere anche fertilizzanti, una strategia detta fertigation. È un sistema più costoso dei primi due, e serve energia per spingere l’acqua attraverso i tubi, però è molto efficiente (90%). La Banca Mondiale suggerisce di usare l’irrigazione a goccia ricavando dai pannelli solari l’energia necessaria per il pompaggio. In modo che ogni campo abbia autosufficienza energetica”.

Ottimizzando, nelle aree che voi avete individuato come dotate di maggiore potenziale, l’irrigazione e lo stoccaggio dell’acqua, di quanto si può aumentare la produzione agricola mondiale?

“Anche nello scenario pessimistico che vede la temperatura media nel 2050 a +3 gradi dal livello preindustriale, nel 2050 potremo sfamare 1,2 miliardi di persone in più grazie allo stoccaggio dell’acqua per più mesi e 0,2 miliardi di persone agendo sull’irrigazione”.

Da cosa si può capire l’importanza e l’urgenza di queste ricerche?

“Dal forte interesse che si vede, ad esempio da parte della Banca Mondiale, per investire nell’irrigazione in aree come quelle indicate dal nostro studio, ad esempio in Nigeria. Anche in Ucraina c’è molto potenziale, e sono stato contattato di recente perché nel piano di ricostruzione dell’Ucraina si vuole investire nell’irrigazione”.  

Come è arrivato a studiare soluzioni per conciliare food security e ambiente?

“Mi sono laureato in ingegneria ambientale al Politecnico di Milano, e ho conseguito sempre a Milano un master con un programma molto particolare: ho scelto una combinazione di corsi sulle soluzioni climatiche che trattavano varie materie tra cui chimica, energetica, e altre. Poi ho fatto il dottorato alla University of California di Berkeley, e un anno di post-dottorato al Politecnico Federale di Zurigo, dove ho fatto ricerca sulla mitigazione del clima. La mia ricerca si è via via focalizzata sul nesso tra acqua, cibo ed energia. A gennaio di quest’anno sono stato chiamato dalla Carnegie Institution for Science – istituto fondato dal filantropo Andrew Carnegie, tycoon delle acciaierie nel secolo scorso – e qui sono principal investigator: sto costruendo un gruppo per studiare soluzioni sia di mitigazione che di adattamento per il cambiamento climatico”.

Quando ha iniziato a interessarsi di clima?

“Sono di Carenno, paesino montano di mille anime, in provincia di Lecco. E sin da piccolo mi appassionava la natura: ero sempre nell’orto della famiglia, con gli animali, oppure nel bosco. Poi alla fine del liceo, il tutor che aveva il compito di aiutare gli studenti a scegliere la facoltà giusta mi consigliò, visto questo mio forte interesse, ingegneria ambientale. Ricordo che nel 2011 gli amici mi prendevano in giro dicendo che ingegneria ambientale non era la più importante delle ingegnerie. Oggi invece è cambiato tutto: per fortuna siamo tutti molto più consci della necessità di un futuro sostenibile”.