Gli elefanti e le formiche, l’umanità e i funghi, le foreste e gli oceani dalle primissime ore di questa mattina hanno una chance in più per garantire la loro diversità e la loro sopravvivenza. In piena notte, nelle prime ore del 28 febbraio, dopo una lunghissima ed estenuante giornata di negoziati fra lacrime e sbadigli i delegati di oltre 150 Paesi riuniti nella sede Fao di Roma per i supplementari della Cop16 che fallì lo scorso novembre in Colombia questa volta hanno trovato una intesa al fotofinish: finalmente c’è una strada, comune, tracciata per tentare di proteggere la biodiversità planetaria. Un cammino, seppur al ribasso, che permetterà di mobilitare le risorse e di monitorare i progressi di salvaguardia passando attraverso un meccanismo finanziario condiviso che, si spera, potrebbe realmente aiutare i Paesi meno sviluppati e le comunità indigene, coloro che ospitano e proteggono le più grandi percentuali di biodiversità sulla Terra, attraverso risorse finanziarie accessibili.

Non era scontato, ottenere questo accordo, qualcosa che Susana Muhamad, la presidente colombiana della Cop16, ha definito come “storico”. Il suo volto, esausto a fine trattative e ancora teso prima del liberatorio applauso arrivato poco prima di mezzanotte – quello della plenaria felice per l’adozione condivisa di un meccanismo finanziario – è diventato sereno solo quando le frizioni fra Paesi – come quelle tra il gruppo dei BRICS guidato dal Brasile contro il blocco europeo, canadese e dei Paesi più sviluppati – a suon di compromessi si sono finalmente allentate. Anche perché come ha detto il delegato egiziano, dopo tre giorni di continue negoziazioni, era ora di “mostrare la via del compromesso, vorremmo andare tutti a dormire”. Quello che è stato concordato a fatica e a poche ore dalla fine definitiva dei lavori è un accordo a ribasso, ma è pur sempre un piano che mancava e ora c’è. Si potrebbe dire che è stato costruito il salvadanaio, dotato di meccanismi per poterlo riempire, anche se non ci sono certezze su chi, come e quando verserà lì dentro il denaro. Come noto l’idea è quella di 200 miliardi di dollari l’anno entro il 2030, quantità comunque insufficiente a proteggere la biodiversità mondiale, ma è pur sempre un primo passo. I Paesi hanno confermato queste cifre e concordato strade e meccanismi per avere strategie di finanziamento nazionali e per destinare buona parte di questi soldi – e realmente, non solo sulla carta come avveniva finora – alle comunità indigene e ai popoli originari che stanno vedendo scomparire la biodiversità fonte di vita (si parla di 20 miliardi dai Paesi più ricchi a quelli più poveri).

Uno dei punti più delicati – anche per far sì che l’accesso al salvadanaio sia reale e semplice – era l’idea di creare un fondo specifico dedicato alla biodiversità e non, come per lo più finora, un sistema che tramite Banca mondiale erogasse risorse. I Paesi meno sviluppati, guidati da Brasile, Russia e Kenya, chiedevano appunto un fondo nuovo e che fosse “dedicato”, gestito direttamente magari dalla CBD (Convenzione sulla biodiversità), dove far confluire i finanziamenti: la loro proposta è stata accettata tramite compromesso ma solo parzialmente, diciamo che per ora è stata aperta la possibilità di crearlo, o di utilizzare per lo stesso scopo fondi già esistenti. Sono state poi adottate strategie per mobilitare le risorse dal 2030 al 2050 per l’attuazione del Quadro Globale per la Biodiversità ed è stata promossa l’idea di un dialogo internazionale tra i ministri dell’Ambiente e delle Finanze dei Paesi sviluppati e in via di sviluppo in modo da accelerare la mobilitazione delle risorse. Tutti questi passaggi potrebbero sembrare molto tecnici ma includono una speranza che, in tempi di tensioni geopolitiche e giorni in cui Donald Trump smantella ogni tipo di politica verde proprio mentre la Terra continua a surriscaldarsi e piante e animali soffrono ulteriormente per le azioni dell’uomo, va tenuta ancora accesa, dimostrando come alla Cop16 e nel mondo la macchina del multilateralismo internazionale funzioni ancora. Non era semplice infatti mettere d’accordo così tanti Paesi con punti di vista diversi in soli tre giorni, dopo che quattro mesi fa la Cop16 in Colombia fallì male e senza alcuna intesa. Questa volta anche se fra tanti compromessi – e parte del merito va alla presidenza colombiana – si è trovato un punto di incontro condiviso da cui partire. Un punto che serve come non mai dato che il tasso del declino delle specie corre veloce (1 milione quella a rischio), tanto da far parlare gli scienziati di “sesta estinzione di massa” sulla Terra. Per questo nel 2022 era stata concordata dalle Parti l’idea di proteggere il 30% di terre e mari: per farlo però servono i finanziamenti e per attivarli serve un processo, che è quello che è stato appunto definito a Roma.

La sola idea di avere finalmente un piano e un meccanismo finanziario (da adottare nel 2028) ha fatto piangere molti dei delegati presenti. “Questa vittoria, questo applauso è per tutti voi. Avete fatto un lavoro incredibile” ha detto loro la presidente Muhamad ricordando che “abbiamo ottenuto l’adozione del primo piano globale per finanziare la conservazione della vita sulla Terra” e una tabella di marcia che potrebbe essere “una pietra miliare”. Abbastanza soddisfatte, ma non del tutto, anche le associazioni ambientaliste che hanno seguito i lavori. Il WWF ad esempio applaude ma ricorda che a mancare sono soprattutto i soldi. Per Efraim Gomez per esempio, Global Policy Director del WWF International, “le parti hanno fatto un passo nella giusta direzione. Ci congratuliamo per aver raggiunto questi risultati in un contesto politico globale difficile. Ma questo accordo non è sufficiente e ora inizia il vero lavoro: è infatti preoccupante che i Paesi sviluppati non siano ancora sulla buona strada per onorare il loro impegno di mobilitare 20 miliardi di dollari entro il 2025 a favore dei Paesi in via di sviluppo”. Per Bernardo Tarantino, specialista Affari Europei e Internazionali del WWF Italia, “a Roma le parti hanno rinnovato e rafforzato il consenso comune per la tutela della natura. In un contesto internazionale molto complicato, servono coraggio e leadership per portare avanti l’agenda diplomatica per la tutela della natura. Dopo la scarsa attenzione mostrata per la COP16 ospitata dal nostro Paese, auspichiamo che il governo italiano si unisca con maggiore convinzione e forza alla necessità di aumentare le risorse finanziarie per la biodiversità e ad eliminare i sussidi dannosi per l’ambiente”. Quel che è certo è che da Roma, come ha detto Susana Muhamed, usando “braccia, gambe e muscoli” il mondo ha iniziato a spostarsi nella direzione necessaria, anche se insufficiente, per proteggere quella biodiversità da cui tutti noi dipendiamo, che riguarda il 50% del Pil mondiale. Lo si potrebbe definire un primo grande passo in attesa di vedere se alla fine le risorse arriveranno davvero, per esempio alle comunità indigene, così come se continuerà la bella collaborazione mostrata in soli tre giorni a Roma fra i Paesi, oppure se il prossimo anno in Armenia alla futura Cop17 sulla biodiversità, i progressi mostrati nella notte rimarranno solo sulla carta.