Il 30 aprile, come ogni anno, scade il termine per comunicare il nome dell’energy manager designato da imprese e pubblica amministrazione. Ma cosa succederebbe se a dotarsi di un energy manager non fosse un’azienda, ma tutto il Paese, l’Italia? Abbiamo provato a ricostruirlo. Vediamo, partendo da un’analisi del ruolo di questa figura.
L’obbligo risale agli anni Novanta
“Si tratta di un obbligo”, spiega Dario Di Santo, direttore di Fire (Federazione italiane per l’uso razionale dell’energia), “che risale agli anni Novanta. In sostanza si richiede alle imprese alle pubbliche amministrazioni con consumi significativi e a quelle energivore di nominare un responsabile alla partita. La ratio è quella di ridurre i consumi, per esempio migliorando l’efficienza degli impianti, ma anche rivedendo le decisioni sulle forniture. Un obbligo che esiste da molto, ma particolarmente attuale oggi per i motivi legati alla decarbonizzazione“.
“Consumare meno energia – prosegue Di Santo – significa non solo risparmiare e ridurre l’impronta carbonica: potenzialmente, assume anche il significato di accedere più facilmente a maggiori risorse economiche per la capitalizzazione di impresa. È stato, infatti, dimostrato che esiste una correlazione statistica tra chi investe in sostenibilità e l’ottenimento di performance economiche migliori. Ne consegue che, sempre più spesso, soggetti come i fondi di investimento richiedono la presenza di figure del genere in azienda”.
A incorrere nell’obbligo, spiega il dirigente, sono le aziende industriali che consumano più di diecimila tonnellate equivalenti di petrolio (tep) l’anno e quelle di terziario e pubblica amministrazione che consumano più di mille tep. Per nominare l’energy manager, basta collegarsi alla piattaforma Fire e compilare i form. Gli ultimi dati (risalenti al 2022) mostrano come fossero 1.582 in totale, di cui 110 nella PA. Ma ce n’erano 35 anche nell’agricoltura.
I problemi della legge: nessuna rendicontazione
“Quella del 1991 era una legge molto avanzata per i tempi, direi a livello mondiale” sottolinea ancora Di Santo. “Nasce in quegli anni il capitolo del controllo degli impianti. Già allora si capiva che le crisi energetiche sono dietro l’angolo, con l’85% dei combustibili fossili che era importato. Peraltro, Roma arrivò in anticipo rispetto agli intendimenti della Commissione europea che risalgono a una decina d’anni dopo”.
Il problema della legge, però, è non prescrive una rendicontazione dettagliata. Basta indicare un nome, e l’obbligo è assolto. Una lacuna normativa, intenzionale e comprensibile nel millennio passato: molto meno oggi. “Noi suggeriamo di adottare il sistema di gestione dell’energia ISO 50001”, dice Di Santo, “tanto più che con la nuova direttiva sull’efficienza energetica emanata lo scorso settembre la stragrande maggioranza delle imprese obbligate a nominare un energy manager dovranno obbligatoriamente adottare un sistema di gestione dell’energia”.
I vantaggi, come detto, non mancano. In definitiva, sintetizza il direttore di Fire, “per l’organizzazione significa dotarsi di una propria politica energetica, cui si giunge dopo una fase accurata di analisi e tramite cui si può stabilire un piano di azione. In questo modo, l’efficienza energetica entra definitivamente in azienda e nella pubblica amministrazione. Si mettono in comunicazione energia e core business, e non mancano casi di realtà che hanno ripensato i prodotti tenendo conto dei consumi legati alla produzione. Insomma, una ulteriore leva competitiva”.
La storia: 30 anni da energy manager
Ma cosa accadrebbe se a essere messo sotto esame fosse il Paese? E con esso pubbliche amministrazioni, Comuni, ospedali? Nell’era degli open data, la risposta si può trovare con una certa facilità. Basta cercare nel posto giusto. Ne è convinto Roberto Gerbo, per oltre trent’anni in Intesa Sanpaolo proprio nel ruolo di energy manager; e che oggi, dopo la pensione, continua l’attività consulenziale in forma privata. “Negli anni Settanta sono stato uno dei primi ingegneri laureati con specializzazione in energetica” racconta a Green&Blue sciorinando numeri e tabelle. “Insieme ad altri colleghi abbiamo fondato Abi Energia, la sezione dell’Associazione bancaria italiana che si occupa degli acquisti all’ingrosso di questo tipo di input”.
Gerbo è specializzato in analisi multisito: “Gestivamo fino a quattromila filiali con uno staff di poche persone. Non potendo fisicamente recarci in ogni sportello, conducevamo analisi energetiche a tavolino basandoci sui dati informatizzati presenti sul nostro software interno. Al riguardo, avevamo ideato un algoritmo per i consumi elettrici preminenti nel terziario, algoritmo non disponibile commercialmente e tuttora valido, in grado di individuare sprechi e consumi anomali analizzando i dati presenti nelle bollette mensili. Dalla sede centrale di Torino, in pratica, eravamo in grado di capire se a Roma, a Trento o a Canicattì c’era uno spreco. E ce n’erano tanti”.
“Abbiamo creato dei benchmark interni su base statistica, che abbiamo giudicato affidabili vista la grande disponibilità di dati, e ci consentivamo di capire quali filiali si ponevano al di fuori dei parametri: capitava se i dipendenti avevano l’abitudine non lasciare i computer accesi prima di rincasare, o se dimenticavano di spegnere le luci. Analisi e processi di questo tipo ci hanno portato a essere la prima banca al mondo a ottenere la certificazione ISO 50001. Non solo: l’istituto era l’unico, ai tempi, che, via software, spegneva sistematicamente tutti i pc delle filiali al di fuori degli orari di ufficio. Gli elaboratori venivano riaccesi tra le 3 e le 4 del mattino per gli aggiornamenti di sistema, e spenti di nuovo fino all’ingresso degli impiegati. Un risparmio di 100 kWh l’anno per pc, e tenga conto che ne avevamo ottantamila”.
Non sono gli unici suggerimenti dell’esperto, che mostra quanto una pianificazione attenta possa incidere sui consumi. I dati su cui lavorare, del resto, non dovrebbero mancare nelle grandi organizzazioni. “Siamo passati presto ai led per l’illuminazione, e abbiamo anche stabilito politiche chiare per i dispositivi interni come stampanti e fotocopiatrici: meglio, per esempio, una multifunzione di gruppo che tante macchine diverse”.
Gerbo parla anche di un elemento che da decenni fa parte dell’arredo urbano e, quindi, dell’uso diffuso, assimilato nell’immaginario degli spazi cittadini al punto che sono pochi, ormai, a prestarci attenzione: il bancomat. “Posso dirle con sincerità che non si ha idea delle differenze di consumo tra i vari modelli: eppure, scegliere macchinette più efficienti offre risparmi impensabili. Del resto si tratta di dispositivi che restano accesi 8.760 ore all’anno, tutti i giorni, senza pause. Lo moltiplichi per tutte le filiali, e si renderà conto delle cifre”.
Un energy manager per l’Italia?
Gerbo ha anche svolto incarichi di amministratore pubblico nel proprio comune di Buttigliera Alta, nel Torinese. Superata la soglia della pensione, ha perseguito l’idea di applicare l’algoritmo sperimentato in Intesa Sanpaolo ai consumi pubblici. I dati, del resto sono aperti e disponibili, afferma. “E sono davvero in pochi a saperlo, giornali compresi”, sottolinea. Perché, spiega con sintesi efficace, “la prima vera energia alternativa è limitare gli sprechi” che – secondo i calcoli che ci presenta – nel Belpaese arrivano al 20-25% in media. “Anche le pubbliche amministrazioni dei Comuni sopra i ventimila abitanti dovrebbero dotarsi di un energy manager – rimarca l’ingegnere – Ma, in assenza di sanzioni, spesso non è così”.
Di quanti enti parliamo? “I Comuni sono ottomila, e poi ci sono le Asl, le caserme, i ministeri” riattacca Gerbo. Certo, esiste già una legge che impone come, per i contratti di manutenzione integrata delle grandi municipalità l’interlocutore debba essere necessariamente l’energy manager: ma quando la figura non esiste, l’obbligo di fatto viene ignorato.
“Alla luce di questa esperienza, nel 2020, col collega Paolo Zanon, informatico, abbiamo condotto a nostre spese uno studio sulla totalità dei comuni italiani basandoci sui dati relativi al 2019 disponibili sul portate SIOPE della Ragioneria dello Stato”. Rapporti che suddividono i bilanci delle Pa in oltre cinquanta voci di spesa.
“A fronte dei pagamenti per acqua, rifiuti, energia, carta, manutenzioni, impianti, macchine, telefonia, materiali per ufficio abbiamo creato i nostri benchmark individuando parametri di riferimento differenziati”.
Il risultato? “Su quindici miliardi di uscite, a nostro giudizio almeno quattro o cinque sarebbero sprechi”. La spesa energetica complessiva ammontava nel 2010 a circa tre miliardi di euro, salita, però, nel tempo per via del caro bollette. “I costi ora potrebbero essere raddoppiati: ma, invece di cercare strategie per ridurre la spesa, lo Stato ha semplicemente aumentato gli stanziamenti”. Il problema, secondo l’ingegnere piemontese, è che tra i burocrati mancano esperti nelle analisi multisito. In fondo, gestire una grande struttura bancaria con sportelli diffusi è un’attività paragonabile a quella di chi dovrebbe analizzare le spese italiane.
“Il primo passaggio per ridurre i consumi è informare i sindaci di quali sono i benchmark di riferimento da utilizzare”. Perché, ritiene l’energy manager, “i primi cittadini quasi mai hanno consapevolezza”. Un po’ come con gli esami del sangue, gli asterischi che compaiono a fianco delle transaminasi o del colesterolo. Del resto, “questi parametri di confronto mancano anche in SIOPE: sul portale, la voce corrispondente da anni è vuota”. “Con queste analisi condotte in maniera sistematica, è facile vedere chi è efficiente e chi no, confrontando dimensioni paragonabili, magari a pochi chilometri di distanza”. E fa l’esempio del Piemonte, “regione – sottolinea – non certo tra le peggiori”: il grafico che riportiamo mostra una varianza ampia. Troppo.
Abbiamo provato anche noi a utilizzare il portale conducendo un test attualizzato sull’anno 2022: dodici mesi in cui l’energia era particolarmente cara per via dell’impennata legata al conflitto in Ucraina e quindi politiche di efficientamento – se messe in campo – avrebbero inciso maggiormente. Va tenuto presente che nei grandi Comuni la spesa è più bassa grazie alle economie di scala che è possibile realizzare: in quelli piccoli può raddoppiare o triplicare. Secondo SIOPE, il Comune di Milano nel 2022 avrebbe speso 44.298.384 euro per l’energia elettrica, pari a circa 32 euro per abitante; quello di Roma 55.685.213 euro (venti euro per abitante); Napoli 29.686.567 euro (trentatré euro a testa), Torino 27.910.269,19 euro totali e 33 euro in media pro capite, Genova 22.115.631,62 e 37,8 euro pro capite. Differenze che in alcuni casi arrivano a sfiorare il 50%. Differenze che sarebbe importante analizzare, ora che gli strumenti non mancano. Magari per spostare i denari su settori critici, come la transizione verde, la sanità o la lotta alle disuguaglianze.