Professore di ecologia artica alla Scuola di Bioscienze dell’Università di Sheffield in Inghilterra, Terry Callaghan è uno degli scienziati esperti di Artico più autorevoli a livello internazionale ed è stato insignito del Premio Nobel per la Pace nel 2007, insieme all’ex vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore, in qualità di Lead Author dell’IPCC – Intergovernmental Panel on Climate Change. Consigliere per l’Artico per il governo britannico, con un percorso di ricerca di oltre 50 anni nei paesi artici su ecologia vegetale, scienza degli ecosistemi e cambiamenti climatici, Callaghan è in arrivo in Italia per una conferenza sull’ecologia artica, il 17 maggio al Cinema Splendor di Chieri, sulle colline sopra Torino. Il suo intervento suona come l’ennesimo campanello d’allarme per il pianeta Terra.

 

Professor Callaghan, una parola che usa frequentemente nei suoi studi è adattamento. Che valore ha in termini pratici nel ridurre l’impatto del cambiamento climatico sul futuro?

“Le persone possono provare a mitigare gli effetti del cambiamento climatico facendo attenzione alle proprie emissioni di carbonio, ad esempio riciclando, viaggiando di meno e conducendo uno stile di vita più sostenibile per l’ambiente. Tuttavia, anche se manca uno sforzo globale unitario, il cambiamento climatico sta cambiando la nostra vita. E quindi dobbiamo adattarci a questi cambiamenti”.


Quali in particolare?

“Ce ne sono alcuni che porteranno delle opportunità alle quali ci adatteremo. Ad esempio, nuove rotte di trasporto lungo le coste artiche, nuove attività di pesca e un migliore accesso alle riserve di minerali e combustibili fossili nell’Artico. Altri cambiamenti, invece, ci porranno di fronte a gravi questioni e sfide, come la perdita di fonti alimentari tradizionali, il dissesto idrogeologico, le inondazioni e gli incendi. L’adattamento presenta diversi aspetti, dallo sviluppo delle infrastrutture alle nuove fonti alimentari. Un esempio interessante arriva dalla Siberia: una persona che vive nella tundra e che possiede una barca a motore caricato elettricamente (da pannelli solari), raccoglie il terreno in erosione da un fiume dove il permafrost si sta scongelando, per coltivare verdure fresche in una serra”.

 

Per adattarsi al meglio occorre prevedere i cambiamenti?

“Sì, dobbiamo essere preparati su come il clima cambierà e di quali saranno gli impatti e le opportunità che ne deriveranno. Sebbene siamo bravi a prevedere le tendenze climatiche generali per il futuro, non siamo altrettanto bravi a prevedere gli eventi estremi in termini di tempi, luoghi e portata. Tuttavia, sono proprio questi eventi che possono essere devastanti per le popolazioni indigene, le comunità locali e la fauna selvatica.  Pensiamo al disgelo del permafrost sul lato di un fiordo roccioso in Groenlandia: ha provocato la caduta di una valanga di rocce nel fiordo generando a sua volta uno tsunami che ha ucciso gli abitanti di un villaggio dall’altra parte del fiordo. Oppure, un’ondata di caldo anomalo nello Yamal ha provocato la formazione di uno strato di ghiaccio che ha impedito alle renne di raggiungere il cibo sotto la neve. In un’area sono morte 40mila renne. Servono previsioni migliori per consentirci di adattarci in tempo”.

 

Gli ecosistemi polari sono una riserva di risorse naturali preziose anche per contrastare il cambiamento climatico. Stiamo perdendo questo patrimonio?

“Si tratta di risorse che forniscono combustibile, cibo e vestiti per le popolazioni che vi abitavano. I paesaggi artici e marini hanno ridotto il riscaldamento del pianeta riflettendo le radiazioni solari in entrata nello spazio e catturando il gas serra dell’anidride carbonica nella fotosintesi e tenendolo al ‘sicuro’ nei suoli del permafrost. Questi processi sono chiamati anelli di retroazione negativa al riscaldamento climatico. Con l’attuale riscaldamento, gli effetti di raffreddamento si stanno perdendo. Con meno ghiaccio e neve, la superficie dell’Artico assorbe più calore dal sole. Questo aumenta lo scongelamento del permafrost e porta a un riscaldamento ancora maggiore, poiché le superfici scure assorbono il calore e il carbonio antico viene rilasciato nell’atmosfera dai microrganismi attivati che decompongono la materia vegetale morta. Anche se la vegetazione più produttiva, come arbusti e alberi, si sposta verso nord nella tundra, è improbabile che il loro maggiore assorbimento di anidride carbonica dall’atmosfera nella fotosintesi compensi la perdita di carbonio catturato nel lontano passato. Inoltre, la morte delle piante a causa di eventi estremi di caldo in inverno e incendi ridurrà la capacità della superficie terrestre di catturare la CO2 dall’atmosfera”.

 

Quali segnali d’allarme interessano l’Artico in questa fase storica?

“L’Artico si sta riscaldando 4 volte più velocemente della media globale. Le temperature estive hanno raggiunto quasi 38 gradi in una città della Siberia orientale, nel 2020. Vediamo il ghiaccio marino ridursi drasticamente di oltre 3 milioni di km quadrati e gli ecosistemi marini, compresi gli orsi polari, dipendono da questo ghiaccio. La calotta glaciale della Groenlandia si sta sciogliendo e sui suoi punti più alti cade la pioggia, anziché la neve. Lo scongelamento del permafrost sta cambiando i paesaggi con il distacco dei pendii e lo scivolamento verso il basso, ci sono ‘buchi’ nei paesaggi del diametro di chilometri e la formazione di cumuli che esplodono e formano piccoli laghi. C’è un drammatico aumento della frequenza dei fulmini a causa del cambiamento del sistema climatico con conseguente aumento dell’area e dell’intensità degli incendi boschivi settentrionali. Questi non sono avvertimenti: sono cambiamenti drammatici in atto e aumenteranno con impatti ben al di fuori dell’Artico”.

 

Pace e cambiamento climatico. Che connessioni vede nell’Artico?

“È stato un’area di pace dove le nazioni hanno lavorato insieme per aiutarsi a comprendere e sopravvivere in ambienti difficili. Il Consiglio artico ha riunito politici di alto livello di tutti gli 8 Paesi artici e partecipanti permanenti delle organizzazioni delle popolazioni indigene. Anche durante la guerra fredda, ho sperimentato collaborazioni amichevoli tra gli scienziati occidentali e quelli dell’ex Unione Sovietica nell’Artico. Sebbene di recente abbia ottenuto una maggiore attenzione da parte del mondo intero per le crescenti opportunità di trasporto e di estrazione di risorse, purtroppo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha interrotto la collaborazione nell’Artico. Ora sta diventando un’area sempre più militarizzata, con l’accelerazione delle tensioni tra Est e Ovest. Facendo un salto nel futuro, è possibile che quest’area dalle vaste risorse minerarie naturali, con estese foreste e enormi quantità di acqua dolce, diventi una calamita per i migranti dal Mediterraneo e dal Nord Africa, aumentando le tensioni politiche. Potrebbe sembrare inverosimile, ma l’Artico del futuro sarà più caldo e compariranno nuove foreste e nuovi terreni agricoli in molte aree adatte con suoli organici profondi e privi di permafrost”.

Un recente studio di INTERACT, pubblicato su Nature Climate Change, fa luce sulle potenziali implicazioni che una guerra prolungata tra Russia e Ucraina potrebbe avere anche sulla ricerca scientifica. Cosa accade per esempio con la perdita delle stazioni di monitoraggio in Russia?

“L’invasione dell’Ucraina ha creato un ostacolo alla cooperazione nell’Artico tra la Russia e il mondo occidentale. Sebbene il telerilevamento da satelliti e droni fornisca indicazioni importanti sui cambiamenti del paesaggio e della biodiversità dell’Artico, l’esperienza sul campo è essenziale per comprendere i cambiamenti a tutte le scale, dai paesaggi ai microrganismi del suolo. La collaborazione internazionale nell’Artico è stata eccellente, ma il nostro potere di osservazione in questa regione vasta e remota è basso. La Russia possiede circa la metà della massa terrestre dell’Artico, la più lunga linea costiera in quest’area e il più grande accumulo di permafrost ricco di carbonio. Non possiamo comprendere i cambiamenti nell’Artico e le implicazioni per il clima, il commercio e le risorse globali senza capire cosa succede nell’Artico russo. Mentre i russi continueranno ovviamente le loro ricerche, è essenziale che sia la Russia che l’Occidente utilizzino gli stessi approcci standardizzati, affinché i nostri dati possano essere confrontati e sintetizzati globalmente pur non lavorando insieme. INTERACT è una rete di oltre 90 stazioni di ricerca, ha lavorato con 21 stazioni di ricerca russe fino alla guerra in Ucraina”.