Alberi e piante sequestrano carbonio dall’atmosfera. Lo fissano nel legno e nella materia vegetale di cui sono composti, e quando muoiono aiutano a custodirne una buona percentuale nel terreno, sotto forma di carbonio organico. Oggi assorbono in questo modo circa un quarto delle nostre emissioni di CO2. Si sperava che con l’aumentare della concentrazione di anidride carbonica nell’aria, le piante avrebbero aumentato di conseguenza le loro capacità di crescita, continuando a controbilanciare, in qualche misura, gli effetti delle emissioni sul clima della Terra.

Un nuovo studio dell’Università dello Utah smorza però l’ottimismo degli scienziati: le capacità di crescita degli alberi – si legge nella ricerca, pubblicata su Science – non dipendono unicamente dalla quantità di carbonio disponibile per la fotosintesi, e quindi la capacità di assorbimento delle foreste nei prossimi decenni potrebbe essere inferiore a quanto sperato fino a oggi.

Per comprendere i risultati della ricerca è utile un brevissimo ripasso di biologia. In particolare riguardo alla fotosintesi, il processo chimico con cui le piante prendono l’anidride carbonica presente nell’atmosfera e la trasformano in glucosio sfruttando la luce del sole, producendo come sottoprodotto dell’ossigeno. Il glucosio viene quindi utilizzato in molti modi, non ultimo la produzione di cellulosa, che compone le pareti delle cellule vegetali. In questo modo, il carbonio originariamente contenuto nell’anidride carbonica viene utilizzato per produrre fusti e foglie delle piante, dove viene immagazzinato, impedendogli di andare a peggiorare l’effetto serra e il conseguente aumento delle temperature globali.

 

Maggiore è la disponibilità di anidride carbonica nell’atmosfera, maggiore il materiale a disposizione delle piante per produrre glucosio, e crescere. Almeno in teoria, questo potrebbe voler dire che le nostre emissioni di CO2 spingeranno gli alberi a una crescita vegetativa sempre più rapida, sequestrando una quantità sempre maggiore di anidride carbonica dall’atmosfera. In teoria, dicevamo, perché ovviamente esistono altri fattori che influiscono sulla crescita vegetale. Primo tra tutti, la velocità con cui le cellule delle piante riescono a dividersi e moltiplicarsi.

Fino a oggi non era chiaro quale di questi fenomeni influisse maggiormente sulla velocità di crescita degli alberi, e quindi sulla capacità delle foreste di sequestrare carbonio. Decisi a scoprirlo, i ricercatori dell’Università dello Utah hanno ideato un esperimento in due parti. Per prima cosa, hanno misurato i pattern di crescita degli alberi in diverse foreste sparse tra Stati Uniti, Europa, Giappone e Australia, utilizzando gli anelli di accrescimento delle gemme, un indicatore della velocità di crescita delle piante. Al contempo, hanno misurato la quantità di anidride carbonica assorbita dalle foreste, per valutare se andasse di pari passo con la velocità di crescita delle piante. E i risultati, purtroppo, hanno smentito l’ipotesi: velocità di crescita e disponibilità di CO2 sono fenomeni largamente indipendenti.

Per gli alberi delle foreste più settentrionali, la velocità di divisione delle cellule sembra determinare la crescita degli alberi più di quanto non faccia la quantità di anidride carbonica disponibile. Nelle foreste più meridionali, invece, si assiste a una maggiore capacità di crescita in presenza di alti livelli di CO2. I risultati – scrivono i ricercatori – indicano che la maggioranza dei modelli utilizzati per stimare la crescita futura della vegetazione mondiale sono errati: danno per scontato che la maggiore disponibilità di anidride carbonica determinerà ovunque una crescita più rapida degli alberi, e visto che in molte aree del Pianeta la situazione potrebbe essere diversa, il contributo delle foreste nel tenere a bada il riscaldamento globale nei prossimi decenni al momento è, molto probabilmente, sovrastimato.

 

Che fare dunque? Di certo proteggere i polmoni verdi del Pianeta dalla deforestazione potrebbe essere un buon punto di partenza. E in questo senso, fortunatamente, un’altra ricerca pubblicata su Science nelle scorse settimane ci offre qualche speranza. Lo studio, realizzato dai ricercatori della Duke University, rivela che con i giusti accorgimenti i progetti di riforestazione e ripristino delle aree umide distrutte dall’inquinamento o dalla deforestazione possono rivelarsi molto più efficaci di quanto non siano attualmente. Il trucco è quello di imitare i naturali meccanismi che portano alla formazione di questi ecosistemi, tenendo conto del fatto che sono composti da molteplici specie vegetali in stretto contatto tra loro, e che ogni ambiente ha le sue specifiche caratteristiche, da tenere a mente per promuoverne al meglio lo sviluppo.

 

“Più di metà dei progetti di recupero delle aree umide falliscono perché non vengono prese in considerazione a sufficienza le capacità che hanno le piante di modificare e creare il proprio ambiente”, spiega Tjisse van der Heide, ricercatore dell’Università di Groningen, in Olanda, coautore dello studio. In soldoni, se piantare nuove piantine in file ordinate e ben distanziate può sembrare la scelta più logica, nella pratica quando si vuole ripopolare un’area paludosa non è invece una strategia corretta. “I progetti di ripristino delle aree umide sono molto più efficaci quando le piante vengono messe a dimora in zolle più folte – aggiunge van der Heide – mimando la loro proprietà di modellare l’ambiente, o anche semplicemente ripristinando aree molto larghe in un colpo solo”.

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Lo studio ha calcolato inoltre che le aree umide contengono il 20% del carbonio assorbito dagli ecosistemi naturali del nostro pianeta. E con una capacità di assorbimento per metro quadro cinque volte maggiore di quella delle foreste, ogni chilometro di paludi o canneti che recupera la sua vegetazione naturale può aiutare a eliminare dall’atmosfera importanti quantità di CO2. “Circa l’1% delle aree umide del pianeta viene distrutta ogni anno dall’inquinamento o dalle bonifiche effettuate per scopi agricoli per altre necessità umane”, conclude Brian Silliman, esperto di Marine Conservation Biology della Duke University. “La buona notizia è che ora sappiamo come ripristinare queste aree umide, con un’efficacia e su una scala mai raggiunte prima”.