L’importanza e la vulnerabilità dell’Artico nel quadro globale dei cambiamenti in atto con la crisi climatica è ormai nota. Gli studi più recenti confermano che alcune previsioni sul modo in cui il cambio climatico influenza le fonti, il trasporto e la destinazione finale degli inquinanti organici persistenti (POP) in Artico si stanno effettivamente verificando. Molto si è parlato di recente della concentrazione di microplastiche, insieme a contaminanti provenienti dalle aree urbanizzate e industriali, che sono trasportati in Artico dalle circolazioni atmosferiche.
I maggiori contaminanti, appunto, sono di origine industriale e sono costituiti da particelle di carbone, idrocarburi, solfati e metalli pesanti. La deposizione di tali particelle sulla neve ne provoca il più rapido discioglimento. I metalli pesanti – soprattutto mercurio, cromo, nichel, piombo, vanadio e cadmio – depositati sulla banchisa e sulla superficie del mare, sono assimilati dal fitoplancton e si accumulano negli organismi attraverso la catena alimentare. Di recente tuttavia, la ricerca ha portato all’individuazione di nuovi contaminanti emergenti. Negli ultimi anni ci si è concentrati infatti anche sul ruolo dell’insieme di residui degli impianti di trattamento delle acque reflue (WWTP), compresi i prodotti farmaceutici e per la cura della persona (PPCP) come principale fonte di diffusione di contaminanti emergenti negli ecosistemi naturali. Alcuni studi ad opera dell’Istituto di Scienze polari del Cnr e dell’Università Ca’ Foscari di Venezia rappresentano il fulcro di questo ambito di ricerca e se ne parlerà all’International summer school della Società italiana di aerosol, in collaborazione appunto con Cnr-Isp e Ca’ Foscari Venezia, da oggi al 21 giugno al Campus Scientifico dell’Università.
Residui dei farmaci maggiori nell’Artico che nelle zone di origine
È il caso In un recente articolo pubblicato su Science of the total environment a firma di Jasmin Rauseo, Francesca Spataro, Tanita Pescatore e Luisa Patrolecco dell’Istituto di Scienze polari del Cnr, in cui si dimostra che le concentrazioni di contaminanti da acque reflue individuati nell’Artico sono spesso in linea o superiori a quelle riportate per le regioni antropizzate alle medie latitudini del globo. I risultati ottenuti dello studio forniscono la prima evidenza della presenza, delle quantità e della distribuzione spazio-temporale di nove (CIP, ASP, CFF, TCL, IBU, DEET, PAR, E1, EE2) dei sedici prodotti farmaceutici e per la cura della persona (PPCP) analizzati nei sedimenti marini superficiali di un fiordo artico, Kongsfjorden, nelle norvegesi Isole Svalbard. Il campionamento è stato effettuato alla fine dell’estate, quando si verificano elevati tassi di sedimentazione, e nell’arco di 5 anni (2018-2022).
“Ciò è particolarmente evidente, ad esempio, per l’antibiotico ciprofloxacina, appartenente alla classe dei fluorochinoloni e ampiamente utilizzato sia nella Norvegia artica che a livello globale. Ma è evidente anche la presenza di ormoni steroidei, in particolare il 17α-etinilestradiolo, l’ormone sintetico presente nelle pillole anticoncezionali e che mostra una elevata persistenza ambientale, una volta immesso nell’ambiente marino – spiega Francesca Spataro – La distribuzione e l’andamento temporale osservati lungo il fiordo per la maggior parte dei composti indagati indicano che l’insediamento di Ny-Ålesund è una fonte di contaminazione locale, ma non l’unica, dato che il trasporto oceanico su scala regionale rappresenta un’ulteriore via di afflusso di tali contaminanti nel fiordo”.
“La concomitanza di questi fattori, può esporre gli ecosistemi artici, a effetti negativi e pericolosi a lungo termine, potenzialmente anche per le popolazioni locali. In questo contesto, è urgente intensificare programmi di monitoraggio nell’area e dare priorità a studi ambientali interdisciplinari, che possano contribuire allo sviluppo di protocolli per la gestione efficace del rischio ambientale e raccomandare misure di mitigazione affidabili per la protezione di questi fragili ecosistemi”, conclude Luisa Patrolecco, ricercatrice Cnr-Isp e responsabile del gruppo di ricerca.
Creme solari tra i ghiacci
In precedenza un altro studio, sempre condotto da ricercatrici e ricercatori dell’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp) e dell’Università Ca’ Foscari Venezia ha confermato la presenza di tracce di creme solari al Polo Nord, sui ghiacciai dell’arcipelago delle Svalbard, accertando che tali contaminanti si depositano soprattutto in inverno, quando sull’Artico cala la notte. L’obiettivo del lavoro era fornire la prima panoramica della presenza ambientale dei prodotti per la cura personale in Artico, fornendo dati sulla loro distribuzione spaziale e stagionale nel manto nevoso.
Grazie ad un progetto Arctic Field Grant finanziato dal Research Council of Norway, in collaborazione con il Cnr-Isp e la stazione di ricerca Italiana Dirigibile Italia a Ny Ålesund, è stato possibile condurre tra aprile e maggio 2021 un campionamento da cinque ghiacciai, situati nella penisola di Brøggerhalvøya. La varietà dei siti, selezionati sia in prossimità di insediamenti umani sia in luoghi più remoti, ha permesso di studiare la presenza e il comportamento dei contaminanti emergenti, composti tutt’ora in uso ma monitorati dalla comunità scientifica in quanto potenzialmente dannosi per l’ecosistema. I risultati hanno rivelato la presenza di diversi composti, come fragranze e filtri UV, che derivano dai prodotti per la cura personale di largo consumo fino alle latitudini più estreme. “È stata la prima volta che molti dei contaminanti analizzati, quali Benzofenone-3, Octocrilene, Etilesil Metossicinnamato e Etilesil Salicilato, sono stati identificati nella neve artica”, afferma Marianna D’Amico, dottoranda in Scienze polari all’Università Ca’ Foscari Venezia e prima autrice dello studio.
“I risultati evidenziano come la presenza dei contaminanti emergenti nelle aree remote sia imputabile al ruolo del trasporto atmosferico a lungo raggio – spiega Marco Vecchiato, ricercatore in Chimica analitica a Ca’ Foscari e co-autore del lavoro – Infatti, le concentrazioni più alte sono state riscontrate nelle deposizioni invernali. Alla fine dell’inverno, le masse d’aria contaminate provenienti dall’Eurasia raggiungono più facilmente l’Artico. L’esempio più evidente riguarda proprio alcuni filtri UV normalmente presenti nelle creme solari. L’origine delle maggiori concentrazioni invernali di questi contaminanti non può che risiedere nelle regioni continentali abitate a latitudini più basse: alle Svalbard durante la notte artica il sole non sorge e non vengono utilizzate creme solari”, prosegue Vecchiato.
I dati forniti dai due studi servono anche a definire piani di monitoraggio nell’area, contribuendo anche alla protezione dell’ecosistema locale. I contaminanti selezionati hanno già dimostrato effetti negativi sugli organismi acquatici alterando le funzionalità del sistema endocrino e ormonale. Alcuni di questi composti sono normati a livello locale in diverse isole del Pacifico e sono attualmente sotto indagine da parte dell’Unione Europea. In questo contesto, quantificare i processi di re-immissione in ambiente dei contaminanti di interesse emergente durante la fase di fusione della neve diventa una priorità per la protezione dell’ambiente artico nel prossimo futuro. “Sarà fondamentale comprendere i fenomeni di trasporto e deposizione di tali contaminanti nelle aree polari, soprattutto in relazione alle variazioni delle condizioni stagionali locali”, conclude Andrea Spolaor, ricercatore presso il Cnr-Isp. “Condizioni che stanno mutando rapidamente in risposta al cambiamento climatico, che in Artico avviene quattro volte più velocemente rispetto al resto del mondo”.
La plastica, problema ricorrente
La ricerca sui contaminanti emergenti va di pari passo con gli studi sulla diffusione delle microplastiche e uno studio pubblicato sul Journal of Hazardous Materials e condotto dai ricercatori dell’Istituto di scienze polari del CNR e Ca’ Foscari con il Norwegian Polar Institute e l’Università di Lione ha accertato che microplastiche e microfibre di dimensioni inferiori a 0,1 millimetri sono state trovate per la prima volta nei ghiacciai dell’Artico, nell’arcipelago delle Svalbard, oltre il 78° parallelo Nord.
“Trovare le microplastiche sulla sommità del ghiacciaio più remoto, Holtedahlfonna, è stato per noi sorprendente e allo stesso tempo preoccupante – spiega la dottoressa Beatrice Rosso, prima firmataria della ricerca – Le concentrazioni di microplastiche osservate nei ghiacciai studiati sono molto diverse tra loro. Inoltre, abbiamo identificato polimeri plastici differenti, tra cui Polietilene, Polistirene, Poliammide e anche polimeri florurati con dimensioni inferiori a 50 micrometri”. Nel 2021, Rosso, dottoranda dell’Università Ca’ Foscari Venezia e assegnista dell’Istituto di Scienze Polari del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-ISP), ha trascorso un periodo di ricerca sul campo presso la stazione artica Dirigibile Italia nel villaggio di Ny-Ålesund per effettuare dei campionamenti di neve in prossimità della base e sulla sommità di diversi ghiacciai limitrofi, con il supporto di Federico Scoto, ricercatore dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Cnr (CNR-ISAC). Beatrice Rosso e Fabiana Corami, ricercatrice CNR-ISP, hanno poi processato e analizzato i campioni per la quantificazione e l’identificazione delle microplastiche, presso i laboratori del Campus Scientifico di Ca’ Foscari a Venezia.
“Questo studio ha evidenziato l’importanza del trasporto atmosferico delle microplastiche, che può coinvolgere anche aree polari remote ad alte latitudini – osserva Fabiana Corami – L’impatto sulla presenza di questi inquinanti sulla sommità dei ghiacciai nel delicato ecosistema polare può avere risvolti negativi nel contesto dei processi del cambiamento climatico che hanno impatto sull’Artico. Inoltre, con la fusione della neve, particelle così piccole possono essere trasportate verso altri comparti ambientali, come il suolo e le acque, dove possono essere ingerite dagli organismi presenti, entrare nella rete trofica e raggiungere poi anche l’uomo”.
Inquinamento di origine antropica dove l’uomo non c’è
Gli studi fin qui citati aprono la strada a nuove domande di ricerca scientifica, ad esempio riguardo al trasporto delle microplastiche nei flussi di circolazione atmosferica e alla necessità di identificare e studiare approfonditamente le sorgenti antropiche che possono contribuire al loro impatto in atmosfera, non solo nelle zone più urbane e antropizzate ma anche alle alte latitudini, come ai poli.
“Siamo abituati a pensare ai poli come a zone remote, irraggiungibili e incontaminate commenta Carlo Barbante, già direttore dell’Istituto di Scienze Polari del CNR e professore dell’Università Ca’ Foscari- Purtroppo non è più così, e la letteratura scientifica continua a darcene prova. Ciò che i nostri ricercatori stanno dipingendo, attraverso rigorosi lavori scientifici, è l’immagine di un Artico in sofferenza: non solo da un punto di vista ambientale, perché contaminato da composti di origine antropica, ma anche da un punto di vista della conservazione, perché messo a dura prova dai cambiamenti climatici che modificano le condizioni locali. Tutto questo ci suggerisce che ciò che produciamo e immettiamo alle nostre medie latitudini non rimane confinato alle nostre latitudini”.
“Abbiamo davanti a noi un Artico sempre più caldo – continua l’esperto, che si occupa da anni di ricostruzioni climatiche ed ambientali e dello sviluppo di metodologie analitiche innovative in campo ambientale e biologico – le stime ci parlano di un aumento medio di temperatura di quasi quattro gradi centigradi, fino a 4 volte più velocemente rispetto alla media globale. Inoltre, siamo di fronte a un ambiente, quello Artico, che è già contaminato: l’individuazione delle microplastiche e dei composti derivanti delle creme solari nella neve dei ghiacciai delle isole Svalbard, dei composti farmaceutici e per la cura personale nel sedimento marino ci suggeriscono che abbiamo oramai oltrepassato il punto di non ritorno. Questi studi sono fondamentali per capire le matrici interessate da questi inquinanti, ma la prospettiva deve essere più ampia. Infatti, è importante avere uno sguardo d’insieme sui processi: atmosfera, neve, acque e sedimento sono diverse facce di uno stesso sistema Terra che si intreccia e influenza in maniera globale il clima del nostro Pianeta”, conclude Barbante.