Nuuk in Groenlandia, Churchill in Canada, Juneau in Alaska, Edimburgo in Scozia, Helsinki in Finlandia, per non parlare di tutta la Siberia del nord. Fra trent’anni alcuni dei luoghi migliori dove vivere rischiano di essere questi. E nel frattempo l’intera fascia equatoriale del mondo potrebbe diventare inospitale a causa delle alte temperature e dei continui eventi climatici estremi, così come molte zone costiere e le piccole isole per l’aumento del livello del mare. A ricordarlo è un volume intitolato Nomad Century, appena pubblicato in Gran Bretagna dalla giornalista e saggista Gaia Vince, dove si spiega come l’emigrazione sarà un fenomeno che riguarderà anche gli occidentali che abitano le aree meridionali. Ma non è detto che debba essere un futuro distopico, come raccontato da Bruno Arpaia nel romanzo Qualcosa, là fuori. In un’Europa prossima ventura, devastata dai mutamenti climatici, decine di migliaia di “migranti ambientali” secondo Vince non necessariamente si dovranno mettere in marcia per raggiungere la Scandinavia come sopravvissuti di una guerra. A patto di iniziare a pensare a delle soluzioni oggi.
“Se nel 2047 l’Alaska rischia di avere temperature medie mensili simili alla Florida attuale è il caso di cambiare narrazione riguardo ad immigrati e migrazioni perché sono la nostra migliore arma per adattarci al mondo di domani“, racconta lei da Londra. Anglo-australiana, appartenente alla generazione X, con il saggio d’esordio Adventures in the Anthropocene: A Journey to the Heart of the Planet We Made, è stata la prima donna a ricevere il Royal Society Winton Prize for Science Books. Da noi è stato pubblicato il secondo libro, Evoluzione, che tratta di come l’umanità si è trasformata in una forza geofisica pari al meteorite che sessantasei milioni di anni fa colpì lo Yucatán causando un’estinzione di massa. Stavolta, malgrado il contesto sia sempre la crisi climatica, il tema è differente e ha a che fare con la nostra incapacità di guardare avanti nonostante i tanti strumenti predittivi che mai prima d’ora abbiamo avuto a disposizione in tale quantità.
La magnitudine è ormai nota: secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni della Nazioni Unite, almeno un miliardo e mezzo di persone dovranno spostarsi entro in 2050. Secondo altre stime, diventeranno tre miliardi nel 2070. Ad ogni grado in più nella temperatura, circa un miliardo di esseri umani si troveranno in una situazione difficile lì dove hanno vissuto da millenni. E se dovessimo fallire con le contromisure per arrestare le emissioni di gas serra, raggiungendo entro fine secolo un amento di quattro gradi, il pianeta diverrà irriconoscibile.
Basti pensare che con un aumento della temperatura di due gradi, altri 189 milioni di persone soffriranno la fame. A quattro gradi l’effetto è dieci volte peggiore con un ulteriore 1,8 miliardi di esseri umani che non avranno cibo. Una delle chiavi per affrontare questa situazione è puntare all’ottimizzazione e all’economia circolare combattendo in primo luogo gli sprechi. Ridurli del 50% aggiungerebbe il 20% in più di cibo all’approvvigionamento mondiale. Può essere fatto, secondo Vince, investendo in infrastrutture migliori per diminuire i tempi di percorrenza e usando tecnologie più efficienti per lo stoccaggio. “Non dimenticherò mai l’angosciante assurdità che vidi durante una visita in Uganda”, spiega. “Malnutriti e affamati nel nord del Paese, frutta e verdura marcite e buttate via nel sud”. Un’altra soluzione proposta è quella di adottare una dieta in cui carne diventa un lusso, sostituita da quella artificiale. Porterebbe a liberare il 75% dei terreni agricoli di oggi e abbassare drasticamente le emissioni di CO2 e l’inquinamento da azoto. Ma soprattutto spostarsi più a nord in una nuova forma di nomadismo.
Per l’emisfero boreale, i territori sopra il 45esimo parallelo nord che in Italia passa da Torino, saranno ancora adatti ad ospitare le persone. Tutti coloro che risiedono più a sud, dalla Grecia alla Spagna fino a buona parte degli Stati Uniti, andranno incontro a condizioni problematiche. Qualcuno ha già iniziato a correre ai ripari in tale senso, ma non in Occidente. Kiribati, formato da 33 atolli nel Pacifico, ha comprato delle terre nelle Fiji per affrontare l’innalzamento del livello del mare. “Un’emigrazione dignitosa”, ha commentato parlando del piano Anote Tong, presidente della repubblica dal 2003 al 2016. In Nomad Century si avanza l’idea che sia possibile applicare questo modello su scala molto più vasta offrendo territori poco abitati, anche in affitto come accadde per l’entroterra di Hong Kong, alle nazioni del sud per consentire loro la costruzione di “città charter” visto che dal 2018 oltre metà della popolazione mondiale risiede nei centri urbani.
La definizione è del Nobel per l’economia Paul Romer: “città charter” sono realtà operanti sotto un diverso insieme di norme rispetto alla giurisdizione nella quale si trovano. Romer le ha concepite nel 2009 come struttura per stimolare lo sviluppo nelle nazioni povere. Secondo lui i Paesi più in difficoltà potrebbero affittare determinate aree a quelli più ricchi e bene organizzati per farle gestire con efficacia. I primi beneficerebbero di maggiori entrate e della creazione di un centro economico di rilievo, i secondi di un’opportunità di investimento e dell’accesso a manodopera e risorse relativamente a basso costo. L’idea non è così lontana dal concetto di “zona economica speciale” come Shenzhen in Cina e Dubai negli Emirati Arabi Uniti, solo che in questo caso si tratterebbe di città intere amministrate da altri Stati. Per questo Vince crede che l’Unione europea avrebbe molte meno difficoltà a mettere in pratica una tale misura al suo interno.
Le città charter di cui avremmo bisogno dovrebbero essere erette a latitudini elevate e ospitare centinaia di migliaia e a volte milioni di cittadini. Un’area adatta sarebbe ad esempio la Russia nord-orientale, regione enorme fatta di centri spopolati e con un potenziale agricolo considerevole visto l’innalzamento delle temperature e le risorse minerarie. Basta però guardare alla situazione geopolitica attuale per capire che è una strada in salita, per usare un eufemismo.
Eppure esiste qualche esempio di tentativi del genere fatti di recente. Nel 2015, al culmine della crisi dei rifugiati siriani, il miliardario egiziano Naguib Sawiris si offrì di acquistare diverse piccole isole greche per ospitare i profughi. Compilò una lista di ventitré fra quelle private, di proprietà di investitori disposti a venderle e la portò al primo ministro greco Alexis Tsipras e all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). I profughi avrebbero contribuito a costruire edifici riconvertibili un domani in strutture turistiche e Sawiris ideò una società per azioni con 100 milioni di dollari di capitale per sostenere la prima fase delle operazioni, ma del progetto poi non se ne fece nulla.
Poco dopo, nel 2017, il governo indonesiano ha deciso di spostare per intero la capitale Giacarta. Sta infatti affondando, scendendo ad un ritmo di 25 centimetri all’anno. Di qui la migrazione di massa decisa a tavolino nella nuova metropoli, Nusantara, su un terreno più alto nel Borneo. Peccato che il 95% della popolazione in un sondaggio dell’agosto del 2019 si sia espresso contro l’esodo forzato. Ed è questo il lato più irrealistico del saggio Nomad Century. Molte delle soluzioni ipotizzate sembrano troppo estreme. O meglio: sono tutte possibili sulla carta, ma improbabili perché pochissimi le accetterebbero.
E così si arriva al messaggio al centro del libro: ci troviamo davanti a sfide mai affrontate prima e dobbiamo per forza guardare alla realtà per avere un piano di emergenza e immaginare soluzioni del tutto nuove se vogliamo uscirne con dignità, parafrasando le parole dell’ex presidente di Kiribati Anote Tong. La stessa Vince ammette che quelle da lei citate sono solo alcune delle opzioni e non è detto che siano quelle giuste. Insiste però sulla necessità di iniziare a pensare a qualcosa e di guardare alle migrazioni, inevitabili, come un fenomeno che non solo può essere gestito ma che potrebbe anche offrire delle opportunità.
“I fenomeni migratori di massa saranno inevitabili e toccheranno gran parte dell’umanità”, conclude l’autrice. “Se gestiti potranno portare a dei benefici come accaduto in passato. La retorica anti immigrazione ha avvelenato la mente delle nazioni più ricche. E questo significa un profondo fraintendimento del fenomeno che oscura i vantaggi e sovrastima i pericoli”. Al di là di quel che si pensa dei nomadi e dei migranti, bisogna riconoscere a Gaia Vince il merito di immaginare quel che fino a ieri era inimmaginabile, partendo dalla considerazione che siamo davanti ad una emergenza mai vista. Soprattutto sottolineare che non abbiamo nessuna vera strategia per il futuro.