L’America prima, il mondo dopo. La Cina prima, ma con uno sguardo al mondo, grazie soprattutto alle sue compagnie private e alle esportazioni. Per comprendere l’impatto che potrebbe avere la presidenza Donald Trump sul futuro del clima globale bisogna partire dall’attualità. Tre fatti recenti la riassumono bene: il 2024 è stato l’anno più caldo di sempre, la California ha vissuto il peggior incendio della storia, alimentato dalle condizioni connesse al riscaldamento globale, e le emissioni di CO2 hanno toccato un nuovo record, arrivando addirittura a il 26% in più rispetto a quelle che erano le attese degli scienziati, una traiettoria definita “incompatibile” con quelle che ci permetterebbero di mantenere le temperature entro i famosi +1,5 gradi. Il che significa, lo sappiamo, che le temperature globali continueranno a crescere, con impatti sempre più devastanti sulla salute del Pianeta. L’unica strada individuata finora per fermare questo processo e garantirci un futuro differente, passa per la collaborazione globale e soprattutto per l’impegno dei due più grandi emettitori di gas serra climalteranti al mondo, la Cina e gli Stati Uniti.

Il luogo deputato a questa collaborazione, in cui quasi 200 Paesi teoricamente dovrebbero avere lo stesso peso, sono le Conferenze delle Parti sul clima, le COP. É qui per esempio che si possono trovare strategie condivise sulle rinnovabili, oppure sulla decarbonizzazione, o ancora sui fondi necessari per aiutare i vari Paesi del mondo a reggere gli impatti del riscaldamento. Finora, nella delicata partita delle COP, a guidare gli sforzi per la battaglia climatica tra i Paesi sviluppati sono stati soprattutto l’Europa e in parte gli Usa. Per questioni tecniche legate al 1992, la Cina, nonostante la sua economia, è considerata fuori dalla lista dei Paesi sviluppati. Nel 2015, a Parigi, entrambi i Paesi hanno preso parte al famoso “Accordo di Parigi”, quello che ha l’obiettivo – con strategie condivise – di mantenere il Pianeta entro i +1,5 gradi. Le strategie passano per impegni e piani nazionali che ovviamente dovrebbero toccare o modificare tutti i principali settori legati alle emissioni: in primis quello dei combustibili fossili e l’energia, ma anche dell’industria, i trasporti, l’agricoltura. Da quegli Accordi, nella sua visione negazionista sulla crisi climatica, Donald Trump ha già tentato di smarcarsi nel 2017, ma l’amministrazione di Joe Biden – nonostante non sia esente da critiche per esempio sull’aumento delle trivellazioni e la produzione di petrolio – nel tempo ha riportato gli Usa al centro delle dinamiche delle COP. A novembre 2024 però c’è stato un doppio cambiamento. Da una parte la rielezione di Trump, che ha subito parlato di voler uscire dagli Accordi e di puntare, come annunciato anche durante l’insediamento del 20 gennaio, sull'”oro liquido” del Paese, il petrolio, e sugli altri combustibili fossili. Dall’altra, mentre venivano diffusi i dati del costante aumento delle energie rinnovabili in Cina, i rappresentanti del dragone alle COP hanno iniziato a mettere i paletti per intestarsi qualcosa di nuovo. Per la prima volta, alla COP29 di Baku, la Cina nonostante sia considerata per tecnicismo ancora un “paese in via di sviluppo” ha cominciato infatti col ricordare come dal 2016 abbia investito più di 24 miliardi di dollari per l’azione per il clima (aiutando altri Paesi) e ha iniziato ad assumere un ruolo più centrale nelle negoziazioni sul clima. La Cina non solo si è dimostrata “collaborativa”, come riassumono molti analisti, ma ha anche mostrato un atteggiamento diverso dal passato, quello in cui nei grandi meeting si calibrava solo a seconda di come si muovevano gli Stati Uniti. La potenziale rivendicazione di una nuova leadership cinese, nel grande sforzo globale necessario per il clima, per alcuni esperti potrebbe essere direttamente legata a una questione economica, non per forza negativa, anzi.

La Cina, a differenza degli Stati Uniti che ora con Trump puntano a “trivellare e trivellare” e a spremere i combustibili fossili del Paese anche per garantire la gigantesca quantità di energia necessaria ai Big Tech e ai database di Elon Musk, sta vivendo oggi una costante crescita delle energia rinnovabili grazie ai settori privati e alle sue aziende. Otto pannelli solari su dieci nel mondo sono realizzati in Cina, così come due terzi della produzione di turbine eoliche, proprio quelle turbine che per esempio coinvolgono l’eolico offshore, altro sistema che Trump dal giorno del suo insediamento ha subito tentato di fermare e disinstallare bloccando le concessioni. Sempre in Cina si producono tre quarti delle batterie al litio del mondo e quasi il 60% del mercato globale dei veicoli elettrici. L’esportazioni di pannelli da parte di Pechino continuano ad aumentare e, anche secondo il presidente cinese Xi Jinping, il fotovoltaico, i mezzi elettrici e le batterie sono il nuovo “trio” al centro dell’economia cinese. Inoltre il Paese sta andando a ritmi altissimi anche sulla produzione nucleare, in cui presto potrebbe primeggiare. Certo, la Cina resta prima per emissioni (ma non pro capite) e per molti aspetti va ancora soprattutto a carbone, petrolio e gas, ma è innegabile come la costante crescita delle rinnovabili non solo stia trainando la sfida della neutralità climatica, ma stia anche spaventando altri Paesi sul fronte esportazioni, oggi impegnati ad ostacolare la Cina con dazi.

Proprio mentre Trump giurava fedeltà all’America dalla Cina sono arrivati nuovi dati sulle installazioni di energia rinnovabile: hanno toccato un nuovo record. La capacità di produzione di energia solare è aumentata del 45,2%, quella eolica del 18%. Questo sta portando la Cina a raggiungere i suoi obiettivi climatici più velocemente, tanto che nel 2023 ha centrato l’obiettivo di installare 1,2 TW di capacità eolica e solare entro il 2030 con ben sei anni di anticipo. Tutto ciò, nella grande partita del clima, indica come il possibile interesse della Cina di intestarsi la leadership nei negoziati, magari insieme all’Europa, possa avere anche interesse economico: incoraggiare altri Paesi a ridurre le loro emissioni utilizzando tecnologie e attrezzature a basso costo cinesi. La scelta di Trump di uscire dall’Accordo di Parigi potrebbe avallare in qualche modo la leadership cinese ed europea: in sostanza, il mondo potrebbe tirare dritto sulla strada delle zero emissioni, ma ovviamente mancherebbe una componente fortemente impattante come gli Usa. Per uscire dall’Accordo, tecnicamente, ci vuole un anno: dunque a novembre a Belem, quando si terrà la COP30 in Brasile, definita come “decisiva” nel cambio di passo per la battaglia climatica, gli Stati Uniti ci saranno, sempre se il presidente vorrà inviare o meno una delegazione. Non avranno però probabilmente voce e voto (saranno osservatori) su questioni relative all’Accordo, ma sugli altri temi conteranno ancora. Bisogna capire però se la visione trumpiana trascinerà altri Paesi fuori dagli Accordi (vedi l’Argentina di Milei) o dai cammini finora intrapresi. L’idea è anche che con le sue prime mosse – l’uscita da Parigi, la dichiarazione di emergenza energetica, l’implementazione del settore fossile, le trivellazioni in Alaska e l’annullamento della pausa sulle esportazioni del gas – Trump voglia mandare un segnale ad altri per uscire velocemente dalla democrazia climatica. In pratica è come se incoraggiasse altri Paesi a tornare a puntare sui combustibili fossili, nonostante scienziati ed esperti di clima avvertano come ulteriori estrazioni potrebbero compromettere non solo gli obiettivi climatici degli States (ridurre le emissioni del 66% entro un decennio), ma anche quelli mondiali.

Ma c’è un però, perché se da una parte le scelte di Trump faranno gioco all’industria del fossile (miliardaria finanziatrice della sua campagna elettorale), negli Stati Uniti c’è anche una fiorente green economy, con migliaia di posti di lavoro, che include società private e investitori che proprio come in Cina potrebbero continuare a spingere per un cambiamento anche a favore del clima. Come ha spiegato Jonathan Pershing, diplomatico veterano che ha lavorato sotto quattro presidenti degli Stati Uniti partecipando a ogni COP, “la crisi climatica è un problema globale che richiede un’azione urgente. La mancata azione porterà a più incendi, siccità e danni alle comunità e alle aziende sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo. Mentre il presidente sta ritirando gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, la realtà è che il governo federale da solo non avrebbe mai risolto la crisi climatica. Ciò ha sempre richiesto un approccio che coinvolgesse l’intera società. Nonostante la decisione dell’Amministrazione di ritirarsi, molti nel mondo degli affari, dei governi statali e locali, della società civile e della filantropia restano impegnati per un futuro pulito e prospero per tutti. Attraverso la collaborazione, il dialogo e la ricerca di un terreno comune, garantiremo soluzioni climatiche durature che favoriscano la crescita economica, rafforzino le comunità e costruiscano un futuro più sostenibile”.

Insomma, America first, ma l’azione multilaterale per il clima – magari guidata dalla Cina – sembra non volersi fermare: a patto però di un cambiamento, lo stesso che scienziati e diplomatici avevano chiesto proprio durante la COP29, una riforma del processo delle stesse COP, che funzionano oggi a stento, per tracciare davvero una strategia efficace a livello globale nell’arginare la crisi del clima. Come dice Laurence Tubiana, considerata l'”architetta” dell’Accordo di Parigi, “il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo è un peccato, ma l’azione multilaterale per il clima ha dimostrato di essere resiliente ed è più forte delle politiche e delle strategie di qualsiasi singolo pPaese. Ma questo momento dovrebbe servire da campanello d’allarme per riformare il sistema, assicurando che i più colpiti, comunità e individui in prima linea, siano al centro della nostra governance collettiva”.