Quali sono gli animali marini che più di altri risentono delle nostre attività? Dove si trovano? Quali sono i fattori che più le rendono vulnerabili? L’ultimo lavoro guidato da alcuni ricercatori della University of California di Santa Barbara in tema di impatti ecologici legati all’attività umana ha cercato di rispondere proprio a queste domande. Lo ha fatto ponendo l’attenzione su oltre 21 mila specie marine in giro per il mondo. Tutti i dettagli del loro lavoro si trovano sulle pagine di Plos One.

La novità principale del nuovo lavoro è quella di aver preso in considerazione la vulnerabilità delle singole specie e non degli habitat in toto. In questo modo, scrivono i ricercatori, si può avere uno sguardo più dettagliato, che tenga conto della diversa fauna presente anche in zone simili. Le specie selezionate, dicevamo, sono circa 21 mila, e comprendono animali rappresentativi dei diversi ecosistemi marini, dai mammiferi, ai coralli, ai rettili marini, agli uccelli e ovviamente ai pesci. Per queste specie sono state elaborate mappe di distribuzione, che i ricercatori hanno quindi combinato con la distribuzione dei diversi fattori disturbanti di origine umana.

Ne hanno considerati tredici in tutto, alcuni più legati al clima di altri. Tra questi tredici figurano la pesca, compresa quella accidentale, l’inquinamento luminoso o dei nutrienti, l’innalzamento della temperatura dell’acqua superficiale, l’acidificazione degli oceani, la distruzione delle aree bentoniche. Per capire l’impatto dei diversi fattori sulla sopravvivenza degli animali, i ricercatori hanno tenuto in considerazione sia la fisiologia delle specie, che le loro capacità di movimento e le capacità riproduttive. Questo perché, spiegano, in questo modo era possibile capire sia l’influenza dei diversi fattori sia la capacità delle specie di adattarsi in risposta.

Una manta robot per proteggere le barriere coralline


I risultati hanno mostrato che i diversi fattori hanno impatti diversi a seconda delle categorie di animali considerati, ma che in cima alla lista di quelli più a rischio compaiono – forse con poca sorpresa – i coralli. Tra i gruppi di animali considerati a rischio, seguono i molluschi, gli echinodermi, i cefalopodi e i crostacei. Le minacce in questo caso arrivano soprattutto dall’aumento delle temperatura, dall’acidificazione delle acque e dall’intensa attività di pesca.

Le mappe elaborate dai ricercatori potrebbero servire a indicare dove più che altrove serve investire in programmi e azioni di conservazione, per esempio puntando sulle aree che sia le analisi per specie che per habitat mostrano come più a rischio, così come quelle più colpite tanto dai fattori climatici che non. Tenendo a mente che, se è vero che aree lungo le coste più densamente popolate sono tra quelle che subiscono gli impatti maggiori (Mediterraneo, Nord Europa e le aree del Sud-est asiatico), le analisi di rischio basate sulle specie mostrano che, soprattutto per i fattori climatici, tutte le acque costiere sono in qualche modo a rischio. In particolare a esserlo sono le regioni indo-pacifiche, l’Atlantico tropicale, il Pacifico orientale e le acque dell’Oceano antartico, come scrivono nel paper: “L’intersezione degli impatti climatici elevati e di quelli non climatici nelle regioni costiere ricche di specie suggerisce un rischio per la biodiversità molto più elevato di quanto precedentemente stimato dai metodi di impatto basati sull’habitat”. Al punto che, continuano, anche le aree considerate più al riparo dagli interventi umani vanno considerate a rischio quando si guarda al modo in cui le diverse specie possono subire gli effetti delle attività umane.


“Riteniamo che il nostro lavoro mostri opportunità per interventi mirati, politicamente fattibili e convenienti per ridurre gli impatti (delle attività umane, nda) sulla biodiversità, quali restrizioni mirate sugli strumenti da pesca, miglioramenti delle pratiche agricole per ridurre il deflusso dei nutrienti e incentivi per la riduzione della velocità di navigazione”, ha dichiarato Casey O’Hara, primo firmatario dell’articolo. Riconoscendo, come scrive con i colleghi, che a livello locale, queste azioni potrebbero aiutare le specie a combattere meglio gli effetti legati ai cambiamenti climatici globali, e magari a sopravvivere.