Viene chiamato “Signore delle acque” e supervisiona le risorse idriche del territorio. Una responsabilità non indifferente, specie in un momento in cui la siccità e le ondate di caldo stanno mettendo a dura prova l’agricoltura mondiale. Siamo nel sud della Cina, dove il paesaggio è dominato dai terrazzamenti votati alla coltivazione del riso: è il caso dei terrazzi Honghe Hani nella provincia dello Yunnan, sito riconosciuto dall’Unesco come patrimonio culturale e naturale mondiale e dalla Fao come patrimonio agricolo di rilevanza mondiale
Qui il Signore delle Acque è incaricato della gestione delle risorse idriche e del monitoraggio dei canali di irrigazione e della loro manutenzione.
Questa regione è popolata dagli Hani, uno dei 56 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti in Cina. Sono circa 1,6 milioni e oltre che nella provincia dello Yunnan (Cina) sono presenti anche in Vietnam, Laos, Myanmar e Thailandia. Negli ultimi 1.300 anni, il popolo Hani ha sviluppato un complesso sistema di canali per portare l’acqua dalle montagne alle aree coltivate a terrazza.
Il popolo Hani non aveva scrittura, quindi le conoscenze e le tecniche di gestione del territorio sono state tramandate di generazione in generazione tramite le canzoni; ci sono infatti canzoni che narrano come interpretare al meglio le stagioni e il meteo, come coltivare al meglio la terra, gestire in modo ottimale le risorse idriche, come allevare gli animali e come cucinare. Una conoscenza tramandata sostanzialmente con il canto.
“Questo popolo ha inoltre creato un sistema agricolo integrato unico nel suo genere: oltre alle 48 varietà di riso che vengono coltivate, esso coinvolge anche bovini, anatre e pesci, allevati negli stessi terrazzi. Una volta giunto a maturazione, il riso viene raccolto e successivamente trasportato a mano o tramite l’utilizzo di animali. Si tratta di un agroecosistema unico nel suo genere”, commenta Paolo Tarolli, Professore al Dipartimento del territorio e dei sistemi agro-forestali dell’Università di Padova, che ha collaborato e collabora con istituzioni cinesi nell’ambito dei terrazzamenti agricoli.
Clima arido, siccità e cambiamenti climatici renderanno l’agricoltura sempre più difficile e resiliente, alcuni popoli pagheranno più di altri il prezzo di questa crisi. Un recente studio dell’Università di Padova, coordinato dal Professor Tarolli, dimostra che, tra tre generazioni, il cambiamento climatico provocherà un’espansione di zone a clima arido con condizioni di scarsità idrica. I più penalizzati da questi mutamenti saranno i paesaggi agricoli in forte pendenza e di grande valore storico culturale.
Lo studio è basato sulla proiezione delle zone climatiche attuali (1980-2016) e future (2071-2100) secondo lo scenario di concentrazione di gas serra RCP8.5, ovvero senza l’adozione di iniziative a favore della protezione del clima e, pertanto, con crescita delle emissioni ai ritmi attuali.
Le coltivazioni in pendenza sono soprattutto concentrate in Messico, Italia, Etiopia e Cina e si tratta di colture di altissima “specializzazione”. Sono presenti anche in Italia sulle colline del Prosecco e del Soave, pratica diffusa in Italia in molte altre zone, dalle Isole Eolie alla Valtellina.
L’agricoltura in forte pendenza si trova principalmente in zone climatiche temperate (46%) e fredde (28%), queste ospitano quasi tre quarti di questi paesaggi. Il cambiamento climatico rappresenterà una seria minaccia per tutta l’agricoltura e i sistemi rurali, con un impatto su raccolti e prezzi alimentari. In particolare, provocherà una variazione nell’estensione delle aree climatiche globali, con ripercussioni significative sui versanti agricoli in forte pendenza. Secondo le proiezioni del nostro studio, la percentuale dei terreni agricoli di collina e montagna delle zone tropicali saliranno al 27% e quelle aride al 16%: sostanzialmente raddoppieranno rispetto alla situazione attuale. All’opposto, nelle regioni fredde si osserverà una riduzione di terreni agricoli di collina e montagna dall’attuale 28% al 13%, mentre in quelle temperate si passerà dal 46% al 44%. In sole tre generazioni quindi aree agricole più estese saranno interessate da un clima più caldo che comporterà un calo della disponibilità di acqua per l’irrigazione e la produzione alimentare”, spiega Tarolli.
È proprio in questo contesto che i saperi tradizionali saranno particolarmente minacciati, ma potranno – nel contempo- esprimere il loro potenziale.
Nelle comunità rurali e indigene con accesso limitato ai dati meteorologici, generazioni di agricoltori, pescatori, pastori, cacciatori hanno fatto affidamento su indicatori come la prima nevicata, l’emergere di una determinata pianta o l’arrivo di una specie di uccelli per decidere quando piantare, raccogliere o svolgere altri compiti. Ma a causa del cambiamento climatico, molti di questi modelli ecologici sono cambiati.
Un progetto dell’Università di Cornell ha mostrato che il cambiamento climatico richiede una rivisitazione radicale dei modi in cui creiamo conoscenza. Karim-Aly Kassam, il professore internazionale di studi ambientali e indigeni alla Cornell University, sta guidando un progetto che riunisce comunità indigene e rurali e studiosi di tutto il mondo con l’obiettivo di sviluppare calendari ecologici che integrino i sistemi culturali locali con quelli stagionali indicatori.
“La conoscenza indigena è un fattore fondamentale per migliorare la resilienza dei sistemi agricoli e, proprio per questo, queste culture e questi sistemi di conoscenza vanno protetti e preservati”, conclude Tarolli.