“Ogni giorno 1 miliardo e mezzo di persone al mondo decidono come vestirsi e con quella scelta stanno mettendo in moto ognuno una filiera produttiva. Dei miliardi di capi di abbigliamento che ogni anno vengono immessi sul mercato, tra 150 e i 180, quanti saranno poi riciclati, riparati o rivenduti? Appena il 3,5%”.
Parole chiare che non lasciano spazio a dubbi quelle di Sergio Tamborini, presidente del Sistema Moda Italia presente al primo forum internazionale dal titolo “The Values of Fashion” dedicato alla transizione sostenibile del mondo della moda organizzato a Venezia a cui hanno partecipato oltre a Adolfo Urso, ministro dello Sviluppo Economico, istituzioni, brand, rappresentanti di aziende e di Ong. E non è un caso si sia tenuto in Italia, visto che l’industria italiana con un fatturato di 100 miliardi e oltre 500mila addetti e 60mila aziende di filiera è al centro del dibattito globale del settore. Chiamata a indicare una strada comune.
Alla Fondazione Cini all’isola di San Giorgio si è fatto il punto della situazione sul settore tessile che, se da una parte continua a crescere (+6%) grazie alla fast fashion, al mercato digitale e ai consumatori più giovani, dall’altra è ancora in ritardo sia sul fronte dell’economia circolare sia della sostenibilità. Ma qualcosa sta cambiando anche in questo mondo così legato alla creatività e ai cambiamenti sociali. E non solo per una scelta etica. Sono infatti le istituzioni internazionali, in particolare l’Unione europea, a spingere i brand e tutta la filiera del tessile, verso la sostenibilità con l’introduzione di strumenti di misurazione per la sostenibilità di imprese e prodotti. Ma anche il mondo della finanza sta giocando un ruolo decisivo.
Senza filiera sostenibile non ci saranno brand sostenibili
“La svolta nel mondo della moda deve arrivare in fretta perchè la questione della sostenibilità sarà la discriminante tra l’essere o non essere sul mercato nei prossimi cinque anni – ha spiegato Carlo Cici Partner e Head of Sustainability di The European House Ambrosetti che abbiamo incontrato alla Fondazione Cini – Gli imprenditori e gli artigiani devono comprendere che se vuoi che la tua azienda sia sul mercato, devi modificare le tue perfomance di sostenibilità a partire dall’anno fiscale 2023, o al più tardi entro il 2024. Rispettando gli standard introdotti dalla nuova direttiva europea”.
Un mondo, quello della moda, fotografato da un lungo studio condotto dai ricercatori di The European House-Ambrosetti. Spiega ancora Cici che ha presentato la ricerca al Fashion Forum 2022: “L’Italia in particolare è la prima nazione, per numero di imprese, interessata da queste scadenze, seguita dalla Francia e dalla Germania. Per questo motivo, serve un cambiamento radicale da parte degli imprenditori, perché sostenibilità oggi significa anche accesso al credito e ai fondi europei e nazionali“.
Scrivono i ricercatori: “L’80% degli attori della filiera afferma di ricevere pressioni dai brand per l’adozione di strategie di sostenibilità, ma poi solo il 53% delle aziende arriva alla certificazione”. Al momento, però nemmeno la pressione finanziaria è percepita come un fattore trainante per la transizione sostenibile, anche per le aziende più grandi. “Ma – spiega Carlo Cici – allo stesso tempo, le pressioni che ricevono dalle banche triplica la propensione delle aziende a pubblicare un bilancio di sostenibilità”.
Anche se piccolo, non puoi rinunciare al cambiamento
Spiega ancora il manager di The European House-Ambrosetti: “Da tempo segnaliamo alle aziende che dal 21 aprile 2021 la commissione europea ha adottato la direttiva Corporate Sustainability che ha segnato un cambio indiscutibile di marcia allargando la platea degli imprenditori tenuti al reporting che non si chiamerà più ‘finanziario’, ma appunto di ‘sostenibilità’. Saranno coinvolte tutte le aziende europee indipendente dal fatto di essere più o meno quotate in borsa. Quelle tessili non hanno compreso che sarà al centro del loro business”.
“Tenute a presentare appunto il report di sostenibilità saranno tutte le piccole e medie imprese e l’obbligo scatterà dal 1 gennaio 2026 ma con i dati riferiti al 2024. E non saranno più le agenzie di rating con i loro sistemi di certificazione o i consulenti a garantire che l’azienda è sostenibile, ma una piattaforma che attraverso parametri standard decisi dalla Ue stabilirà le perfomance. La vera sfida? Fare in modo che il reporting per le aziende sia la conseguenza naturale di un processo di cambiamento. Per questo motivo continuiamo a dire agli imprenditori e agli artigiani che da adesso in poi, la sostenibilità deve fare parte integrante di ogni processo aziendale”.
Lo studio Just Fashion Transition
“Abbiamo analizzato le perfomance economico-finanziarie di 2.700 aziende, valutando la sostenibilità di 167 aziende della filiera italiane e analizzando gli strumenti di gestione della sostenibilità delle 100 più grandi imprese europee. Ne è emerso che le aspettative di crescita al 2026 sono di circa 7,9 annuo spinte dai giovani al di sotto dei 24 anni sempre più interessati al prezzo e meno alla qualità. Anche se il 28% della Gen Z si è comunque dichiarato interessato alla sostenibilità al momento dell’acquisto”, ha spiegato ancora Cici.
La velocizzazione dei tempi di produzione è stata, negli ultimi 30 anni, incredibile, passando dai 9 mesi degli anni Novanta ai 3 giorni del 2020. Contestualmente si registra una contrazione dei prezzi: solo in Gran Bretagna dal 1995 al 2014 il costo degli abiti è sceso del 54%, mentre gli altri beni di consumo sono aumentati del 49%.
Mancano i dati sull’impatto ambientale
Uno dei problemi rilevati riguarda la carenza dei dati: “È disorientante – ha affermato il ricercatore – Le emissioni di Co2 sono stimate tra il 2 e l’8%, ma non abbiamo trovato una metodologia di calcolo. Anche la stima dei consumi idrici è tre volte superiore (215 contro 79 miliardi di metri cubi). In Europa il quadro è leggermente più stabile”. Nello studio si fa anche un esempio concreto a conferma della volatilità dei dati: le stime del consumo d’acqua necessario a produrre un paio di jeans variano infatti da 3.781 litri, a una cifra cinque volte maggiore, 20mila litri.
Sul fronte sociale la stima dei lavorati che operano nel settore a livello globale è tra i 60 e i 75 milioni di persone molti dei quali vivono in Paesi in via di sviluppo dove maggiori sono i rischi di diseguaglianze di genere, lavoro minorile e forzato, esposizione a prodotti chimici.
Più consapevolezza, ma per vestire green non si spende
“L’interesse per la sostenibilità diminuisce se richiede la concretezza di un’azione” spiega ancora Cici. Su 19 mila consumatori, l’80% si è dichiarato preoccupato per la sostenibilità ma solo dall’1% al 7% si è detto disponibile a spendere di più per avere un capo più green. L’obiettivo è tradurre la preoccupazione verso l’ambiente dell’opinione pubblica in comportamenti coerenti da parte dei consumatori.
Sei raccomandazioni per la Just Fashion Transition
Lo studio di The European House – Ambrosetti si conclude con sei raccomandazioni per gestire e non subire la transizione sostenibile del settore moda. Tra queste, uno dei nodi chiave emersi dalla ricerca: la mancanza di dati omogenei e condivisi. “Bisogna istituire un osservatorio permanente, realizzato in collaborazione con le associazioni di categoria e con le alleanze industriali, per raccogliere, sintetizzare e divulgare i dati sul settore”. The European House – Ambrosetti propone di concordare le metodologie di calcolo e avviare la raccolta dei dati su: salari minimi, consumo di acqua, uso di prodotti chimici, emissioni di gas serra, materie prime riciclabili.
Importante la promozione di un cambiamento culturale positivo verso i consumatori che sembrano più consapevoli sui temi della sostenibilità, ma non sono disponibili a pagare un prezzo più alto per vestire in maniera green. “Bisogna sfruttare il potenziale comunicativo di esperienze come ad esempio concerti o eventi culturali per coinvolgere i consumatori soprattutto i più giovani e migliorare le loro abitudini di acquisto, con una narrazione positiva”.
Infine, la transizione sostenibile sarà facilitata se le imprese della filiera del lusso, presenti essenzialmente in Francia e in Italia, costituirà un’avanguardia in grado di fare sistema e di dettare l’agenda nei tavoli di lavoro europei e delle istituzioni internazionali. “Fare da soli non sarà più sufficiente, il lavoro di squadra pagherà. Per questo le alleanze tra i diversi attori della filiera saranno cruciali – spiega ancora Carlo Cici che conclude – il nostro appello agli imprenditori della moda è dunque questo: la competizioni può continuare in tutto i campi, ma non su quello della sostenibilità. Su questo cerchiamo di trovare una strada comune”.