Negli ultimi 50 anni l’aumento delle temperature e l’acidificazione degli oceani hanno sterminato circa metà delle barriere coralline del nostro Pianeta. Per difendere questo patrimonio naturale inestimabile servono quindi azioni rapide, e concrete. E una nuova ricerca australiana dimostra che non basterà concentrarsi sulle singole aree dove i coralli vivono e si riproducono. Le barriere coralline non sono infatti sistemi isolati, ma compongono un network di ecosistemi connessi da correnti marine che garantiscono l’interscambio di pesci e coralli allo stato larvale anche tra aree estremamente distanti tra loro. E la protezione di tutta questa rete di connessioni – rivela lo studio pubblicato su Science – sarà fondamentale nei prossimi anni per garantire la loro sopravvivenza.
La ricerca ha utilizzato un approccio teorico, studiando le barriere coralline in termine di “fonti”, cioè le aree da cui le larve di pesci e coralli iniziano il loro viaggio, “pozzi” (o meglio “sink”, in inglese), il loro luogo di arrivo, e “corridoi di dispersione”, ovvero le correnti che mettono in collegamento tra loro le barriere coralline.
Analizzando quindi una selezione di barriere coralline presenti negli oceani, hanno scoperto che quelle con funzione di pozzo con molte connessioni ad altre barriere coralline presentano circa il doppio della biomassa rispetto a quella presente nelle aree che agiscono come fonti, e rispetto a queste sono anche più resilienti alle attività umane. Se gestite correttamente, possono quindi rappresentare una fonte di sussistenza per le comunità costiere, perché sono in grado di resistere ad un’attività di pesca sostenibile. Mentre le aree meno interconnesse, che svolgono il ruolo di fonti di larve per altre barriere coralline, sono molto più sensibili a qualunque attività umana, e beneficerebbero quindi da politiche di conservazione più rigide.
Indicazioni utili in vista delle decisioni che andranno prese nei prossimi anni sulla scelta delle aree oceaniche da salvaguardare a livello internazionale, in linea con l’obiettivo (sottoscritto lo scorso anno anche dai paesi del G7, Italia compresa) di trasformare in aree protette il 30% degli oceani entro il 2030. In poarticolare considerando che, stando ai risultati del nuovo studio, attualmente il 70% delle barriere coralline che giocano un ruolo importante in questo network oceanico non è protetto in alcun modo.
“Identificando i ruoli distinti, eppure complementari, che svolgono i ‘pozzi’, le ‘fontì e i ‘corridoi di dispersione’ delle larve nella fornitura di servizi ecosistemici – misurati in termini di biodiversità e biomassa degli stock ittici – è possibile prendere decisioni informate su quali aree proteggere, trasformandole in aree marine protette o attraverso altre politiche di conservazione, per massimizzare la biodiversità e i benefici in termini di pesca”, sottolinea Luisa Fontoura, ricercatrice della Macquarie University e prima autrice del nuovo studio.