Di cosa parla una coppia di innamorati seduti, mano nella mano, sul bordo di un cratere di un vulcano in piena attività? Quali aneddoti ama ricordare ridendo? Di quando lui era caduto in un buco profondo che si era formato in un fumante cono attivo? La storia non ci ha regalato molte coppie di vulcanologi. Nel mondo delle scienze è capitato che amore e ricerca si unissero, come accadde a Pierre e Marie Curie il cui legame fu sublimato anche da un Nobel. Tra i vulcanologi, invece, gli amori sono rari, probabilmente perché tra loro il sentimento deve avere la forza di un’eruzione e proprio questo il tipo di amore che legò Katia e Maurice Krafft.
Capelli corti, occhiali e piccola di corporatura lei, lui corpulento e guascone. Diversi caratterialmente e fisicamente ma uniti da un amore passionale per lava, cenere, lapilli e gas. Un sentimento che li ha visti insieme anche il 3 giugno 1991 quando l’eruzione di Unzen, in Giappone, li ha uccisi.
La loro storia è stata raccontata nel film Fire of Love presentato in anteprima italiana nel corso del Trento Film Festival, che festeggia il suo settantesimo compleanno con un’edizione eccellente e ricchissima di novità cinematografiche, e con un bellissimo poster di Milo Manara che torna al Festival da protagonista, dopo il manifesto rifiutato nel 1997.
Realizzato da Sara Dosa unicamente con i filmati che la coppia di intrepidi vulcanologi francesi aveva realizzato nel corso di numerossime missioni scientifiche (170 Katia, 150 Maurice), Fire of love si arrichisce della voce fuori campo dell’attrice e regista Miranda July, che regala una patina di nostalgica empatia.
Tra i più amati dal pubblico del Festival, il documentario è un’opera stupefacente, coinvolgente, ricca di poesia e che propone immagini uniche, ancora più esplosive di quelle mostrate da Werner Herzog nel suo Into The Inferno. Una miscela di sensazioni che bene rappresenta la loro esistenza in continua sfida con la morte. Per svelare i misteri dei vulcani e per catturare immagini sempre più forti, i due sono rimasti intrappolati in un gioco dell’estremo come quando li abbiamo visti, praticamente danzare, rapiti dall’eccitazione, su un cratere a pochi metri da una eruzione, quasi un’immagine tratta da un film di fantascienza. L’interrogativo sul senso del tragico e del limite ha accompagnato il dibattito intorno al documentario sin dal suo trionfo al Sundance, dove ha vinto il Jonathan Oppenheim Editing Award della giuria.
La più longeva kermesse internazionale di cinema, dedicata all’ambiente e alla montagna, ha riabbracciato, così, in presenza il pubblico nei tanti luoghi della città trentina, animati per dieci giorni da più di 150 appuntamenti e oltre 120 film in programmazione di cui 27 anteprime mondiali, 13 internazionali e 37 italiane.
Dal fuoco al ghiaccio, la rassegna cinematografica continua per lanciare l’allarme sul nostro destino. Con il danese Into The Ice di Lars Ostenfeld il mondo esplorato è quello della Groenlandia, vista da dentro la calotta glaciale. Insieme a tre tra i più importanti glaciologi mondiali, Dorthe Dahl-Jensen, Jason Box e Alun Hubbard, il regista filma una spedizione scientifica rischiosissima che penetra nelle viscere, scendendo nelle cavità scavate per centinaia di metri dalla lenta azione delle acque che si sciolgono. L’obiettivo è quello di trovare delle risposte fondamentali per la nostra sopravvivenza: quanto velocemente si sta sciogliendo il ghiaccio? Quanto si sta alzando il livello del mare e a quale ritmo? Quanto tempo ci rimane per cercare di contrastare il corso di questi eventi? Il segreto celato dai ghiacci diventa allarme e secondo gli scienziati tutto accade paurosamente più rapidamente di quanto gli studi sinora lasciavano intravedere.
Il pubblico del festival ha anche potuto vedere, in anteprima, La pantera delle nevi, diretto da Marie Amiguet e Vincent Munier, vincitore come miglior documentario ai César 2022 e prossimo a uscire in sala anche in Italia. Girato sull’altopiano tibetano i fantasmi della montagna, così vengono chiamate le pantere delle nevi, mostrano tutta la loro bellezza apparentemente protette da un santuario naturale.
In realtà è una specie a rischio di estinzione a causa del bracconaggio e della crisi climatica e il film diventa una riflessione sulle responsabilità dell’uomo che il fotografo naturalista Vincent Munier e il suo accompagnatore, il romanziere Sylvain Tesson, non possono negare mentre scorrono le immagini di un ecosistema quasi incontaminato.