L’immagine è divisa a metà: a sinistra gli alberi ripresi dall’alto sono di un verde brillante, sano, le chiome compatte, mentre a destra i colori sono spenti e le chiome rade, malate, distrutte dalla Xylella fastidiosa. È una delle fotografie più suggestive della mostra “Edward Burtynsky: Xylella Studies”, dal 25 novembre al 9 aprile alla Fondazione Museo Pino Pascali a Polignano a Mare (Bari). Il fotografo canadese ha documentato il disastro ecologico che ha colpito gli ulivi in Puglia con un progetto avviato con la Fondazione Sylva, ente no-profit che si occupa di rigenerazione ambientale attraverso attività di riforestazione.

Un anno fa la Fondazione, che è nata nel 2021 proprio con lo scopo di rigenerare il paesaggio pugliese, ha ospitato in residenza nel Salento Burtynsky, fotografo tra i più apprezzati a livello internazionale per il suo impegno civile nel testimoniare l’impatto dell’uomo sul pianeta. Una delle sue opere più significative è infatti Antropocene, lavoro che combina fotografia d’arte, film, realtà virtuale, realtà aumentata e ricerca scientifica per indagare l’influenza umana sullo stato, la dinamica e il futuro della Terra. la Fondazione Sylva ha chiesto a Burtynsky di tradurre in immagini e video la distruzione del patrimonio arboreo millenario pugliese causata dal batterio della xylella. Ne è nato un lavoro sintetizzato dalla mostra di Polignano e da “Xylella Fastidiosa. Puglia: The Lost Olive Groves. Photographs by Edward Burtynsky” che è stata dal 21 al 27 novembre all’Auditorium Parco della Musica, nell’ambito del Festival delle Scienze.

È stato lo stesso Burtyinsky ad accompagnarci nella visita alla mostra di Roma, svelando una curiosità: “Prima di arrivare in Puglia il mio team aveva fatto un sopralluogo e mi aveva mandato delle immagini in cui il paesaggio era inaridito dalla siccità, con gli olivi che si stagliavano sulla terra marrone – racconta il fotografo -. È bastato un giorno di pioggia, due giorni prima che io arrivassi, e tutto è cambiato, mi sono trovato di fronte uno scenario completamente diverso, ma penso che il verde faccia risaltare ancora meglio la morte degli alberi e al tempo stesso sottolineai la vitalità della Natura”.

La prima foto di fronte a cui si ferma documenta l’aspetto sociale della distruzione degli olivi pugliesi. Al centro dell’immagine c’è un albero senza chioma, ma l’ampiezza del suo tronco lascia intuire che si tratta di una pianta antichissima. “La gente del posto lo chiamava ‘la vecchia chiesa’, perché aveva 1200 anni ed è uno dei più antichi tra quelli distrutti dal patogeno. Mi emoziona sempre – ammette il fotografo – pensare che è sopravvissuto a guerre, siccità e poi è arrivata questa piaga e ne ha spezzato l’esistenza. La sua storia non è diversa da quella degli esseri umani uccisi dalla pandemia: la Xylella è arrivata attraverso frutti importati dal Sud America, così come il virus è passato da animali agli umani attraverso i mercati. Però, a differenza del Covid, la Xylella non lascia vivo nessun albero. Eppure ci sarebbe stato modo di fermarla”.

Burtynsky si sposta davanti all’immagine cui si accennava all’inizio. “C’è un modo per fermare la Xylella, ed è prendersi cura della biodiversità, non affidarsi alle monocolture. In questa foto si vede chiaramente che il batterio uccide soltanto gli olivi e piante diverse avrebbero impedito la diffusione. Sarebbe bastato lasciare corridoi verdi tra le coltivazioni per non avere questo esito disastroso. La Natura sa come difendersi, la biodiversità è la sua migliore arma di difesa”.

 

Il fotografo si accalora, parla con le competenze di un botanico, riferisce del lavoro fatto dalla Fondazione Sylva per la riforestazione e per la documentazione scientifica: “Credo che il nostro compito di artisti, una volta che abbiamo raccolto le informazioni, sia di restituirle alle persone in una forma più ‘digeribile’ e immediata, in modo da creare consapevolezza. È particolarmente importante per il cambio climatico – continua – e sono fermamente convinto che l’importante sia di mostrare senza accusare, in modo da mettere le persone di fronte ai fatti, dare loro fiducia e lasciarle arrivare alle conclusioni. Bisogna dare speranza e incoraggiare chi è ancora indeciso, ma bisogna farlo in modo rivelatorio e non accusatorio”.


Burtynsky si ferma su una delle foto fatte con il drone, per dare l’idea dell’estensione del fenomeno: “Ho percorso quasi tutto il Salento in auto – dice – è impressionante vedere l’entità della distruzione, campo, dopo campo, dopo campo”. Poi indica un’immagine in cui il grigio delle chiome malate sembra quasi una trina: “I vecchi alberi morenti paiono dare vita a una foresta incantata. Il mio non può essere, per quanto scientifico, un lavoro distaccato, c’è della bellezza anche nel ritrarre la tragedia, altrimenti non saremmo qui a guardare queste foto”.

Ma l’estetica accompagna la denuncia. Un tronco bruciato è il simbolo della tragedia nella tragedia, perché al disastro della Xylella hanno contribuito anche incuria, irregolarità, interventi tardivi oggetto anche di indagini della magistratura. “La mostra non vuole far vedere soltanto gli alberi – sottolinea Burtynsky – è la testimonianza si persone che hanno perso tutto o che sono state cieche e sorde di fronte alla scienza. Alcune famiglie avevano gli oliveti da generazioni, è la storia di una grande perdita e della fragilità del nostro mondo. Questo albero è bruciato perché gli agricoltori non hanno ancora avuto il permesso per tagliare gli olivi e piantarne di nuovi. Così, spesso di notte c’è chi va ad appiccare il fuoco al suo oliveto, una cosa estremamente violenta se si pensa a quel che significava per loro”.

Nella foto di un tronco contorto in primo piano l’artista intravvede “una muscolarità fatta di tendini e ossa, come una scultura”, dell’albero ripreso dall’alto e spaccato in due racconta “c’è qualcosa di magico, cercavo un modo di comunicare il senso di meraviglia per cui la Natura sa stupirci anche nella morte”. C’è bellezza anche nelle radici tagliate e accatastate: “Volevo dare il senso della loro incredibile pesantezza, che viene da tutti i loro anni vissuti e improvvisamente finiti”.

“Questo lavoro è una sorta di racconto appassionato su molte cose – conclude Burtynsky – parla della necessità di affidarsi alla scienza, perché se si fosse dato ascolto agli esperti si sarebbe potuto limitare il disastro, ma soprattutto è un grido d’allarme per la biodiversità, perché le monoculture sono sempre un pericolo. Per questo è importante il lavoro della Fondazione Sylva, che cerca di ridare vita a questi luoghi con la riforestazione e di indicare un modo per imparare dai propri errori”.