BOSTON. Continua la scommessa di Eni sulla fusione nucleare made in Usa. Anzi raddoppia. Se già da qualche anno il colosso italiano dell’oil and gas era tra gli “azionisti strategici” della Commonwealth Fusion Systems (uno spinout del Massachusetts Institute of Technology), da oggi Eni diventa anche partner tecnologico della compagnia di Boston.

Nel campus poco fuori dalla città, inaugurato un mese fa alla presenza del Segretario all’Energia Usa Jennifer M. Granholm, dove si stanno costruendo le infrastrutture che ospiteranno entro pochi mesi un primo prototipo del reattore a fusione nucleare concepito dagli ingegneri del Mit e della Cfs, l’ad di Eni Claudio Descalzi e il ceo della Commonwealth Bob Mumgaard hanno firmato oggi un “accordo di cooperazione a sostegno dello sviluppo e della commercializzazione dell’energia da fusione”. Insomma se Eni finora in questa impresa ci aveva messo solo i soldi, da ora contribuisce anche con la sua esperienza ingegneristica e di project management.

L’obiettivo è ambiziosissimo (e osservato con misto di curiosità e scetticismo anche dal resto delle comunità scientifica che si occupa di fusione nucleare): realizzare e rendere operativo entro due anni, nel 2025, il primo impianto pilota a confinamento magnetico per la produzione netta di energia da fusione. Ed entro i primissimi anni del prossimo decennio costruire la prima centrale elettrica industriale da fusione in grado di immettere elettricità nella rete. Tempi ravvicinatissimi e in deciso contrasto con le previsioni di molti degli addetti ai lavori, che continuano a parlare di “decenni” prima di riuscire a domare la fusione nucleare e a utilizzarla per i nostri fabbisogni energetici.

Eppure l’ottimismo visionario della Commonwealth Fusion Systems e di chi, come Eni, ci ha investito denaro e ora competenze, si basa su anni di ricerche del prestigiosissimo Mit e su un risultato preliminare ottenuto (e molto celebrato) nel settembre del 2021: la messa a punto di un magnete superconduttivo ad alta temperatura, il più potente al mondo nel suo genere. Un dispositivo fondamentale per “confinare” il plasma di atomi di deuterio e trizio (due isotopi dell’idrogeno) e per comprimerli fino innescarne la fusione uno nell’altro con liberazione di grandi quantità di energia.

Grazie anche a questo risultato, molto preliminare ma fondamentale, Cfs, nata nel 2018, ha raccolto una quantità record di investimenti privati: circa 2 miliardi di dollari. Una fetta cospicua (intorno al 20%, ma non ci sono conferme ufficiali) è riconducibile all'”azionista strategico” Eni.

“Fin dal 2018 abbiamo investito in Cfs e siamo stati la prima azienda energetica a impegnarci in questo settore”, ha ricordato Descalzi. “Oggi rafforziamo ulteriormente questa collaborazione con le nostre competenze ed esperienza, con l’obiettivo di accelerare il più possibile il percorso di industrializzazione della fusione”.