L’Europa ha deciso quale sarà la sua posizione a Cop29, la 29esima edizione della Conferenza Onu sul clima che quest’anno si terrà dall’11 al 22 novembre a Baku, capitale dell’Azerbaigian.
Ieri in serata, il Consiglio dell’Unione europea ha trovato un accordo sulla linea da tenere quando, tra poco meno di un mese, tutte le nazioni del mondo si rivedranno per fare il punto sulla lotta al riscaldamento globale. In estrema sintesi: nessuna novità da Bruxelles. Nel documento finale non ci sono slanci in avanti, per assumere la leadership del contrasto alla crisi climatica, ma neppure dietrofront. Che pure erano nell’aria, considerando come in molti Paesi Ue siano oggi al governo forze politiche che non hanno mai fatto del clima una loro bandiera.
Meloni: “Nulla di verde in un deserto”
Ancora questa mattina, la premier italiana Giorgia Meloni ha detto in Parlamento: “La decarbonizzazione al prezzo della deindustrializzazione è un suicidio: non c’è nulla di verde in un deserto”. Assecondando gli istinti della parte più conservatrice del mondo imprenditoriale italiano. E ignorando, o facendo finta di ignorare, che nel resto d’Europa e del mondo (Cina e Stati Uniti in primis) gli investimenti in innovazioni green sono un volano straordinario, capace di produrre profitti e posti di lavoro.
Ma è solo l’ennesimo esempio del doppio tavolo su cui gioca la politica italiana quando si parla di clima: in patria dichiarazioni pubbliche a uso dell’elettorato; sottoscrizione di documenti che dicono l’opposto nei consessi internazionali, dalle Cop al G7, passando per la Ue.
Il doppio tavolo della politica italiana
Non si spiegherebbe altrimenti la distanza tra le parole pronunciate da Giorgia Meloni e il testo varato ieri dal Consiglio dell’Unione europea, dove fino a prova contraria siede anche il governo italiano: “Si sottolineano le opportunità e i co-benefici che un’ambiziosa azione per il clima porta non solo al Pianeta e all’economia globale, ma anche alle persone, in termini di migliori standard di vita, salute, maggiore sicurezza idrica, sistemi alimentari sostenibili e prezzi energetici accessibili. Si sottolinea che, pur preservando la competitività economica e promuovendo l’inclusione sociale investendo in istruzione, scienza, innovazione e posti di lavoro e competenze verdi, tutte le società possono trarre vantaggio da una transizione verde giusta ed equa verso un nuovo modello economico verde. Si ricorda che il costo dell’inazione supera di gran lunga il costo di percorsi di transizione ordinati e giusti”.
La Ue determinata a fare la sua parte
Abbandonando le contraddizioni interne a Palazzo Chigi, e tornando al senso complessivo del documento europeo, emerge la determinazione della Ue a fare la propria parte per rispettare il punto fondamentale dell’accordo di Parigi, e cioè mantenere il riscaldamento del Pianeta a 1,5 gradi in più rispetto all’era preindustriale, o comunque entro i 2 gradi. In tal senso l’Unione si impegna, per ora solo a parole, a dar seguito all’abbandono dei combustibili fossili (la “transition away” con data finale il 2050 concordata l’anno scorso alla Cop28 di Dubai). L’anno prossimo (al più tardi) andranno presentati i nuovi “contributi determinati a livello nazionale (Ndc): cioè quanto ogni Paese si impegna a tagliare le sue emissioni.
I raddoppi dei gasdotti, che fine faranno
C’è attesa per le promesse europee e non è detto che qualche governo non voglia approfittare del palcoscenico di Baku per fare il suo annuncio. Ma c’è chi, come Climate Action Network Europe, suggerisce che per essere in linea con le emissioni zero al 2050, il Vecchio Continente dovrebbe rinunciare definitivamente al carbone entro il 2030, al gas entro il 2035, al petrolio entro il 2040. Eppure molti in Europa, a cominciare dall’Italia con i previsti raddoppi dei gasdotti, stanno continuando a investire denaro pubblico nei combustibili fossili: è ragionevole immaginare che queste nuove infrastrutture, costate miliardi, verranno rottamate tra appena dieci anni?
La finanza climatica
Il vero cuore di Cop29 sarà però la finanza climatica. Finora i Paesi ricchi ha tenuto fede, con molta fatica e grandi ritardi, all’impegno precedente e ormai in scadenza: favorire la transizione dei Paesi in via di sviluppo con un contributo di 100 miliardi di dollari l’anno. La scorsa settimana i ministri delle finanze della Ue hanno dichiarato che avrebbero continuato a versare la loro quota. E anche nel documento varato ieri, non c’è alcun cenno a eventuali contributi aggiuntivi, anche a fronte di una pressante richiesta da parte dei Paesi più vulnerabili.
Allargare la base dei contributori: il caso Cina
A Baku si cercherà di coinvolgere la Cina, che non contribuisce perché formalmente ancora “in via di sviluppo”. Ma Europa e Stati Uniti puntano ad “allargare la base dei contributori”, sottolineando come la forza economica di Pechino sia completamente diversa da quella del 1992, anno in cui fu firmata la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc). Da Pechino si fa notare però che la gran parte della responsabilità dell’innalzamento delle temperature ricade sull’Occidente e sulla Rivoluzione industriale di cui è stato artefice e protagonista negli ultimi due secoli.
La posizione attendista dell’Europa
Dunque l’Europa va a Baku con una posizione attendista. Si guarda alla Cina, nella speranza che partecipi allo sforzo finanziario necessario per aiutare i Paesi a rischio. E si aspetta l’esito delle elezioni statunitensi del 5 novembre, che con una eventuale vittoria di DonaldTrump cambierebbero completamente lo scenario delle politiche climatiche.
Ma la Ue, almeno nei testi, conferma tutta la sua preoccupazione per la crisi climatica: “Una minaccia esistenziale all’umanità, agli ecosistemi e alla biodiversità, nonché alla pace e alla sicurezza che non risparmia alcun Paese, territorio o regione”, scrivono i capi di governo riuniti a Bruxelles. Salvo poi dimenticarlo quando tornano nelle proprie capitali.