Le pere ad uncino, le mele bianche, le sorbe, l’arancio biondo della conca d’oro, i corbezzoli rossi, i pomodori lampadina. Franco Di Manno è una sorta di archeologo dei frutti dimenticati. Da molti anni viaggia tra le campagne tra Fondi e Latina con una missione: ritrovare le varietà di frutta e verdura date per estinte per piantarle nel suo campo, il Parco dei frutti dimenticati.
Medico psichiatra all’ospedale di Pontecorvo dove si occupa soprattutto di disagio giovanile e adolescenziale, vive a Querce di Cesare, una frazione sotto costa vicino Fondi, un territorio di campagna dove in lontananza si vede il mare di Sabaudia. Solo filologia la sua? “Niente affatto. Io i miei frutti li coltivo, li produco e li condivido con amici e vicini. La mia ricerca fa parte di una scelta di vita: tutelare l’ambiente e la biodiversità. Ed è anche una scelta di salute. Perché nessuno può stare bene se questa bella famiglia di erbe e animali la distruggiamo continuando a produrre inquinamento e avvelenamento di cibi che consumiamo”. Guai però a dare al Parco dei frutti dimenticati un valore terapeutico e per spiegare il motivo ricorre a Karl Marx: “Ho sempre creduto alla teoria che la vita intellettuale deve andare insieme all’azione al movimento, alla fisicità che deve trovare sempre un’espressione. Perché siamo prima di tutto azione”.
“Il ladro di rose”
Settant’anni, tre figli, due lauree, racconta il suo passato da “sessantottino”, anni formazione descritti nel suo libro (ha utilizzato uno pseudonimo Francesco Speranza) che non a caso si intitola Il ladro di rose (Santelli editore). Una storia di adolescenti che si confrontano con le generazioni che hanno vissuto le trasformazioni sociali e culturali degli anni Sessanta e Settanta. “La prefazione è stata scritta dai Dacia Maraini, un regalo grandissimo”, racconta Di Manno. Parallelamente alla passione scientifica è crescita quella per l’archeologia arborea nei vecchi frutteti e orti, che invece ha ereditato dai genitori, entrambi contadini.
Fin da ragazzo la natura è sempre stata un esempio per me – racconta – Sono convinto che essere nato ed aver vissuto in campagna abbia inciso sulle scelte che poi ho fatto lungo la mia vita. E come albero e ogni arbusto ho coltivato il parco della biodiversità anche nel mio cuore, aperto ad ogni spazio culturale e naturale che mi circonda.
Così quello che all’inizio era solo un giardino con un piccolo frutteto si è trasformato in una sfida: salvare quante più specie possibili dall’estinzione. “Prima ho piantato le giuggiole che mi ricordavano la mia infanzia, poi le mele cotogne che fioriscono dopo metà maggio per fare marmellate, poi sono arrivati i fichi settembrini e le pere spadoncine tardive che nessuno coltiva più, la pesca giallona che è una rarità, l’uva fragolina bianca e rossa, il biricoccolo, metà susina e albicocca”. Verdure e frutti che sembrano creature fragili, testimoni di una storia, la quantità non importa, non perdere le tracce del passato questo è importante. Ricostruire la memoria di ciò che è accaduto.
La fattoria didattica
Pianta dopo pianta è nato il Parco dei frutti dimenticati di Fondi che presto diventerà anche una fattoria didattica (“Voglio aprirla ai bambini per insegnare loro il passato della terra in cui vivono per proteggerla”). Oggi il terreno è vasto 5 mila ettari. Si è aggiunto un aranceto e un orto biologico. Grazie a lui l’arancio biondo della conca d’oro è riapparso dopo essere stato spodestato anni fa dalle arance siciliane. Storie che si intrecciano con le origini, la terra, il senso di appartenza ad un luogo e il desiderio di salvarne la biodiversità. Passeggiare in mezzo alle piante del Parco dei frutti dimenticati sembra quasi di viaggiare nel tempo in questo angolo della regione Lazio. Ovunque ci sono frutti autoctoni in via di estinzione o scomparsi dai banchi della frutta o dalle tavole da tempo come i corbezzoli rosso carminio e fagiolini con gli occhi che crescono nel tardo autunno. Ma non tutto è salvo ai confini del parco. È lui stesso a raccontarlo.
Far crescere la consapevolezza
Intorno le strade piene di traffico ricordano che il Parco dei frutti dimenticati da solo non può fare molto.
Il mio parchetto lo difendo, ma non basta a niente e nessuno, se non cambiamo le nostre abitudini di vita e di consumo. Perché intorno ci sono strade percorse da auto con motori inquinanti. Se vogliamo salvare il nostro ambiente dobbiamo essere tutti consapevoli e agire insieme, da soli, per quanto possano essere importanti la scelta individuali, non si può fare la differenza. Io coltivo la memoria, ma ricostruire le radici, tutelare la biodiversità è importante solo se viene coinvolto anche il resto del territorio. Per questo motivo trasformo il mio giardino in una fattoria didattica. Voglio far crescere la consapevolezza su questi temi nei bambini. E spero che i più giovani la trasmettano agli adulti. Per un futuro davvero più sostenibile.