Il mercato del lavoro è sempre più green. Dirigenti, impiegati e operai in tutto il mondo stanno migrando dal settore dei combustibili fossili verso lavori connessi all‘energia rinnovabile. Nell‘ultimo anno i green job o posti di lavoro “verdi” sono arrivati a sfiorare solo in Italia i 3,1 milioni di unità, un dato stimato progressivamente in crescita nel prossimo futuro: poco più di due anni fa Symbola, Unioncamere e Confcooperative stimavano una necessità di +2,2/2,4 milioni di posti di lavoro verdi aggiuntivi entro il 2025, mentre oggi Confindustria, Federmanager e 4.Manager affermano che tra il 2023 e il 2026, tanto le imprese quanto la pubblica amministrazione avranno necessità di circa 4 milioni di lavoratori con competenze green di alto e medio profilo.
Dalla tredicesima edizione del rapporto GreenItaly 2022, redatto proprio da fondazione Symbola con Unioncamere, emerge anche che l‘occupazione green è maggiormente diffusa al Nord-ovest (32,9%), seguono il Nord-est (23,9%), il Sud (22,2%) e il centro (21%). In particolare, guida la classifica la Lombardia con 367mila nuovi contratti green job e la chiude la Sicilia.
Dall‘altro lato, invece, a livello globale – secondo uno studio citato dal New York Times – le compagnie petrolifere e del gas hanno licenziato circa 160mila lavoratori nel 2020, hanno mantenuto budget limitati e assunto poco personale negli ultimi due anni. Una somma che ha portato nel 2022 l‘industria petrolifera e del gas a contare circa 700mila lavoratori in meno rispetto a sei anni fa, un calo di oltre il 20%. Gran parte di questa inversione dei dati ha avuto a che fare con il rallentamento del boom della perforazione e l‘escalation dell‘automazione dei processi lavorativi.
Insomma, il cambio di tendenza c’è. Come dimostra, per esempio, il tasso di occupazione nel settore dell‘energia eolica, che è cresciuto di quasi il 20% dal 2016 al 2021, raggiungendo oltre 113mila lavoratori. E ancora, il fatto che i lavori green sono più stabili rispetto agli altri: il 24% del totale dei contratti previsti in entrata è a tempo indeterminato, rispetto al 13% delle professioni non green.
C’è però chi legge questi dati come il risultato di una rivoluzione, per il momento, solo parziale. “La transizione green sta arrancando nel mondo del lavoro, sopratutto in termini di politiche governative ad hoc”, svela Adalberto Perulli, ordinario di diritto del lavoro nell’università Ca’ Foscari di Venezia. “Manca un sostegno politico, sia negli Stati Uniti, sia in Europa: tutti i dati che analizziamo sono frutto dello sviluppo economico e industriale che si flette e sfrutta il driver dell‘ambientalismo. Ovvero, la nuova offerta di lavoro green arriva da aziende e imprenditori, che hanno capito il momento storico e la necessità di cambiare filosofia produttiva, non grazie al cambio di rotta radicale dei governi. Perciò, grazie alla dinamicità della sua economia, gli Stati Uniti sono chiaramente avvantaggiati“.
Un mondo in crescita, quindi, che deve però fare i conti con il nodo del reperimento: dall‘indagine emerge come le imprese riscontrino una maggiore difficoltà nel trovare professionisti esperti del mondo green rispetto ad altri mestieri. Un fattore determinante che inficia anche il processo decisionale delle istituzioni: secondo un sondaggio della Banca europea per gli investimenti (Bei), condotto su oltre 12.500 imprese e 685 autorità, gli investimenti nella tecnologia verde dell‘Ue sono frenati dalla mancanza di lavoratori qualificati.
Più di quattro quinti delle aziende e il 60% delle autorità locali intervistate dalla Bei hanno affermato che una carenza di competenze, in particolare nei settori dell‘ingegneria e del digitale, sta impedendo la realizzazione di progetti che mirano a contrastare il cambiamento climatico.
Anche in Italia l‘allarme è stato lanciato mesi fa dall‘ex ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani, che sottolineò come “sui green jobs abbiamo serissimi problemi di formazione, mancano 15 mila tecnici e 30 mila ricercatori”.
Già nel 2021 la posizione del nostro Paese era in chiaroscuro: le 300 mila aziende italiane (il 21,4% del totale) che hanno deciso di intraprendere la strada degli eco-investimenti per la conversione sostenibile di tecnologie e prodotti, nel 37,9% dei casi hanno segnalato difficoltà nel reperire figure professionali con le competenze necessarie a supportarle nel percorso della green economy.
Fra i lavori con competenze green, come emerge dal rapporto, le 10 figure professionali più richieste sono:
- responsabile vendite a marchio ecologico,
- riparatore di macchinari e impianti,
- installatore di reti elettriche a migliore efficienza,
- informatico ambientale,
- esperto di marketing ambientale,
- ecodesigner,
- muratore green,
- esperto in gestione dell‘energia (ingegnere energetico),
- certificatore della qualità ambientale
- installatore di impianti di condizionamento a basso impatto ambientale.
“Si può arrivare a svolgere un green energy job in Italia partendo da tante strade differenti, dai percorsi tecnici a quelli più umanistici, dai più brevi ai più lunghi e specialistici”, spiega Agostino Re Rebaudengo, presidente Elettricità Futura, la principale associazione di imprenditori del settore elettrico italiano che con oltre 500 imprese rappresenta più del 70% del mercato elettrico.
Come invertire, perciò, questa tendenza e sopperire alla mancanza di personale? Attraverso la formazione: sono sempre meno gli studenti che si iscrivono ai corsi di ingegneria petrolifera, preferendo invece materie di studio collegate al mondo dell‘economia circolare e alla sostenibilità. “Per invertire il trend bisogna avvicinare scuola e imprese, il mondo della formazione ha un ruolo fondamentale, orientando gli studenti verso i green jobs”, afferma Rebaudengo. “È importante da una parte che gli studenti conoscano quali sono le professionalità che verranno sempre più richieste dalle imprese della transizione energetica, dall‘altra è necessario fornire ai ragazzi le competenze e le capacità per poter scegliere, in base alle loro personali inclinazioni, verso quale tra queste figure professionali orientarsi”.
Nel 2022 il numero di nuovi laureati nelle facoltà con sbocchi nel settore petrolifero (ingegnere, manager e via dicendo) è arrivato a circa 400 negli Stati Uniti, con una perdita dell‘83% in confronto al 2017, anno in cui i laureati erano più di 2.300.
L‘Università di Calgary in Canada e l‘Imperial College London hanno entrambi messo in pausa i corsi di ingegneria petrolifera e del gas l‘anno scorso, e dal 2006 al 2020 il numero di laureati nelle business school che hanno intrapreso una carriera nel settore petrolifero e del gas è diminuito del 40%.
Anche in Italia, fra corsi di laurea, dottorati e borse di ricerca, si moltiplicano gli atenei che mettono al centro l’ambiente unendo diverse discipline. Il ministero dell’Università ne ha contati, solo di corsi, oltre 160 sparsi in tutto il Paese. Economia dell’ambiente e dello sviluppo, Ingegneria delle fonti rinnovabili, Rigenerazione urbana, Scienze geologiche applicate alla sostenibilità ambientale, Turismo sostenibile, solo per citarne alcuni.
Poi ci sono le borse per i dottorati di ricerca: nel 2022 sono stati cento quelli dedicati alla transizione digitale e ambientale. Parallelamente, sono oltre 200 gli studenti attualmente impegnati nei primi cicli del programma di formazione dottorale in Sviluppo Sostenibile e cambiamento climatico, lanciato nel 2021 grazie al cofinanziamento del Ministero dell‘Università e della Ricerca (MUR) e il supporto di 30 Atenei italiani (pubblici e privati) insieme ad altri enti di ricerca.