L’uomo che sussurra gli elefanti si chiama Gabriele Saluci, ha trentadue anni e origini siciliane. E ha deciso di mettersi in gioco per diventare ranger, con un certificato ad hoc rilasciato dalla FGASA, l’associazione Ranger del Sud dell’Africa. Ma soprattutto per diventare ingranaggio di un nuovo turismo: lento, sostenibile, rispettoso della natura.
Ed è per questo che in una riserva privata del Botswana studia – tutti i giorni – il comportamento degli animali, che qui non è ancora influenzato dai flussi turistici che hanno invece preso d’assalto, negli ultimi anni, i parchi naturali africani. E sì, finisce che con gli elefanti ci parli, o quasi. “Quella volta in cui uno di loro si avvicinò troppo alla nostra macchina, dovetti rivolgermi direttamente a lui. Il tono di voce pacato e tranquillo serve per tranquillizzare l’animale, fargli capire che non siamo una minaccia, e che quindi meritiamo rispetto. Dopo avergli detto il mio nome, e altre frasi di circostanza, si è subito allontanato. Tra animali, e quindi anche tra animali e umani, è importante il rispetto degli spazi“.
Risponde dal cuore dell’Africa meridionale, tra il deserto del Kalahari e il delta dell’Okavango: siamo in Botswana e non è una passeggiata di salute, affatto. “Ci si alza alle cinque del mattino, si va a dormire al calar del sole”, racconta. “Bisogna seguire i ritmi della natura. E vivere a contatto con gli animali, tutto il giorno, diventando – da ospiti sconosciuti – coinquilini di un paesaggio straordinario, che leoni e giraffe imparano a conoscere e rispettare. Un’esperienza straordinaria”.
Il campus mobile è formato da un tendone – installato tra gli alberi, pavimento di sabbia, banchi in legno e una semplice lavagna – e da una mensa, con un braciere in pietra attorno a cui ci si raduna per cucinare insieme ai cuochi locali. C’è una zona doccia (l’acqua si riscalda con il fuoco), mentre la zona notte prevede che tende distino anche trecento metri l’una dall’altra. “Restare soli aiuta a imparare la gestione della pressione in natura”, spiega Gabriele.
La sua è una scelta profonda: Saluci è un documentarista e organizza viaggi avventura con Sto Gran Tour. Da anni esplorava l’Africa. Poi ha iniziato a porsi domande più profonde. Quali? “Mi sono chiesto se stessi facendo qualcosa per i Paesi in cui viaggio. Quale fosse il mio ruolo come viaggiatore e fino a che punto potessi davvero dire di interessarmi del Paese in cui mi trovavo, di capire fino in fondo cosa stavo documentando, e cosa stessi raccontando alle persone in viaggio con me”. Una sorta di illuminazione, legata soprattutto alla pandemia e alle considerazioni sui cambiamenti climatici. “Nei viaggiatori, soprattutto tra i più giovani, si è innescato un sentimento di consapevolezza e attenzione nei confronti del nostro Pianeta e del proprio approccio al viaggio”, spiega il ranger in erba. “Si può scegliere di non essere turisti-consumatori ma game changer: persone che possono avere un impatto positivo sull’ambiente, sulle comunità locali e sugli altri viaggiatori“.
Si chiama promadic travel, nomadismo progressista: una forma di turismo sostenibile, che coinvolge sempre più giovani, tra i 20 e i 35 anni, nati dunque nella fase della globalizzazione turistica. E animati dal desiderio di salvare il Pianeta iniziando dal ripensare il viaggio. Come? “Combattendo il turismo eccessivo e il razzismo, contribuendo all’arricchimento e alla tutela dell’ambiente e delle comunità locali. E soprattutto iniziando dal chiedersi non dove viaggiare, ma perché”.
Dall’overtourism, il turismo di massa, al cosiddetto undertourism: “Scegliere gli itinerari meno battuti e più genuini e fare in modo che non perdano la loro identità”, spiega ancora Gabriele. Che ha dunque puntato forte sul Botswana: “È un Paese che amo e la sua fauna è spesso minacciata dai cambiamenti climatici in corso e dalla poca informazione su cosa fare per difenderla, anche nel nostro piccolo. Voglio iniziare questo percorso per fare la mia parte. Informando e guidando i viaggiatori alla scoperta di questa parte di mondo nel modo più corretto e sostenibile possibile”. Per questo Saluci si è così iscritto a questa sorta di “Università della Savana”, come ama chiamarla: il percorso dura da uno a tre anni (dipende dalla specializzazione richiesta), gli esami sono prove scritte e pratiche.
Per prepararsi al mattino si seguono lezioni in aula magna da rangers esperti: si parla di psicologia animale, veterinaria, astronomia e biologia. Al pomeriggio, si passa alla pratica: “Su Jeep 4×4 effettuiamo safari e test pratici di sopravvivenza per mettere in pratica quanto appreso. La notte poi, a turno, gli studenti fanno la guardia al campus per allontanare eventuali animali notturni curiosi, come iene e leoni”. Fila tutto liscio? “Prima di andare a dormire facciamo delle ronde intorno alle tende per individuare e allontanare gli animali. Con le torce, illuminiamo la savana e spesso nel buio totale il fascio di luce spuntano occhi in agguato. A seconda del colore del riflesso degli occhi, capiamo se si tratta di erbivori o predatori. I leoni, per far sentire la loro presenza e far capire il predominio sul territorio, iniziano a ruggire. Un ruggito lieve, ma che basta a spaventarti e a farti capire che non sei da solo, che non sei il solo. A quel punto non hai alternative: devi filare in tenda”.