Nel 2020 erano quattro miliardi e 417 milioni di metri cubi in un anno. Ecco la quantità di gas naturale che viene estratta in Italia, stando al Piano per la transizione energetica delle aree idonee (Pitesai) del ministero per la Transizione ecologica. Ma secondo lo stesso ministro Roberto Cingolani sarebbero anche meno, circa 3 miliardi, a fronte di un consumo che lo scorso anno è stato di 76,1 miliardi di metri cubi. Da più parti si sta gridando allo scandalo: trent’anni fa ne estraevamo 30 miliardi di metri cubi l’anno e in generale il nostro Paese avrebbe giacimenti valutati attorno ai 350 miliardi di metri cubi, mentre oggi siamo costretti ad importarlo e per il 37,8 per cento arriva dalla Russia. Ma le cose a ben guardare sono più complesse di come sembrano se ci limitiamo a considerare unicamente i numeri di ieri e quelli attuali.
“La riduzione della capacità estrattiva ha dei motivi, non abbiamo semplicemente chiuso i pozzi per uno sbalzo d’umore”, spiega Roberto Bianchini, direttore dell’Osservatorio Climate Finance del Politecnico di Milano. “Il costo dell’estrazione del gas da un singolo giacimento aumenta nel tempo e a volte diventa economicamente svantaggioso proseguire e poi non tutti i siti hanno le stesse capacità né si può estrarre alla medesima rapidità. In altri casi i giacimenti non furono sfruttati sempre perché non avevamo la tecnologia per farlo in modo vantaggioso e in seguito per aver scelto di non usare la fratturazione idraulica o fracking per i rischi potenziali”.
I giacimenti attivi sono circa 1.300, anche se quelli che vengono realmente utilizzati con continuità superano di poco quota 500. Degli oltre quattro miliardi di metri cubi di gas italiano, il 54,6 per cento arriva dai giacimenti in mare e il resto dalla terraferma, che poi significa dalla Basilicata. Da sola vale il 34% di quel 45% proveniente dai pozzi di terra. In mare invece la zona d’origine del gas è l’Adriatico del nord davanti a Veneto, Emilia-Romagna e Marche.
L’obiettivo di Cingolani, sarebbe ora quello di aggiungere altri 2,2 miliardi di metri cubi, che porterebbe così l’ammontare totale a oltre 6 miliardi o cinque secondo i numeri, quelli del Pitesai o del ministro. Si pensa soprattutto ai giacimenti nel Canale di Sicilia da dove dovrebbe arrivare l’80% del nuovo gas. Un altro 15 verrà aggiunto da altri siti davanti a Emilia-Romagna e Marche, l’ultimo 5% preso nel Mar Ionio vicino Crotone.
Per riprendere a estrarre di più bisogna investire sapendo che non si raddoppia o triplica la produzione nel giro di qualche mese. Senza dimenticare che sfruttare alcuni giacimenti, quelli davanti a Venezia, comporta alcuni rischi. Ad ogni modo non c’è solo la capacità estrattiva, in Italia non abbiamo nemmeno espanso i siti per lo stoccaggio del gas. Se avessimo maggiore capacità di immagazzinamento, avremmo potuto affrontare con più serenità le possibili ritorsioni russe a fronte delle sanzioni.
“Per molto tempo non abbiamo avuto problemi di approvvigionamento”, prosegue Bianchini. “Il tema non era di tipo geopolitico ma solo di prezzi. Non conveniva estrarre o aprire altri pozzi, piuttosto importare. E sempre per lungo tempo prezzi di gas ed energia sono stati bassi e stabili”.
All’indomani dell’invasione dell’Ucraina, ipotizzare quale saranno gli equilibri futuri significa sapere se conviene riprendere a trivellare o meno. Non è più una scelta economica quanto strategica. Decidere in pratica se dobbiamo dipendere, per una fonte primaria come il gas, da altri Paesi o aumentare le nostre capacità di produzione e le nostre scorte. Ricordando che l’indipendenza energetica significa investimenti e dunque costi, gli stessi che in passato abbiamo deciso di non pagare, a differenza degli Stati Uniti, perché sembrava inutile. D’altra parte l’unica alternativa è il ricorso al carbone, che inquina molto di più, o alle rinnovabili che però da sole non è detto che bastino.