2030, 2100… quando pensiamo al futuro, spesso, un secolo ci sembra già un’eternità. Ma se la data da prendere in considerazione fosse addirittura il 22 dicembre del 12.021, cioè esattamente tra 1.000 secoli? Inimmaginabile. Eppure, è questo l’orizzonte temporale con cui deve confrontarsi chi si occupa di scorie nucleari, come spiega Massimiliano Clemenza, ricercatore dell’Università degli studi di Milano Bicocca e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare: “Esistono sostanzialmente due tipi di rifiuti radioattivi. La maggior parte, come quelli derivanti dall’attività di medicina nucleare, hanno una vita abbastanza ‘breve’, nell’ordine di qualche centinaio d’anni.
Le scorie nucleari vere e proprie, come quelle di plutonio, richiedono invece circa 10.000 anni prima di diventare innocue, cioè con un’attività radioattiva paragonabile a quella presente in natura all’interno del suolo. Per questo, richiedono depositi geologici profondi, costruiti con materiali che rimangano stabili per tutto il tempo necessario e in luoghi inaccessibili all’uomo e all’ambiente circostante. Il rischio principale di questo tipo di scorie, infatti, è che ritornino nell’ambiente, per esempio a causa di infiltrazioni d’acqua”.
Pericolo o pirati?
Uno di questi depositi geologici profondi si chiama Onkalo ed è in costruzione a oltre 450 metri di profondità vicino alla centrale nucleare di Olkiluoto, in Finlandia. Secondo i progettisti sarà in grado di resistere intatto per 100.000 anni.
(documentario in inglese sul deposito di Onkalo)
Ammesso che sia vero, però, chi avvertirà i nostri posteri della sua presenza? È una domanda a cui si cerca di rispondere da almeno 40 anni, cioè da quando, nel 1981, il governo americano coinvolse un gruppo di scienziati e studiosi di tutto il mondo (Human Interference Task Force) per cercare di immaginare quale potesse essere il messaggio di allerta più efficace per questo tipo di luoghi, in grado di “viaggiare nel tempo” ed essere compreso anche migliaia di anni dopo che è stato creato. Un compito non da poco, se si pensa che, per esempio, ancora oggi alcune lingue del passato non sono state del tutto comprese nemmeno dagli studiosi. Non solo: anche simboli e pittogrammi, che dovrebbero essere più facilmente comprensibili da tutti, col tempo, possono assumere significati contrapposti. La svastica, che in origine e in alcuni culture orientali è un simbolo positivo, è solo l’esempio più famoso. Ma anche il famoso teschio con due ossa incrociate, usato universalmente come simbolo di “pericolo”, può avere interpretazioni diverse: a un bambino ricorderà quasi sicuramente i pirati e non un veleno.
Sacerdoti atomici e gatti Geiger
Per risolvere il problema Thomas Sebeok (1920 – 2001), uno dei membri della Task Force, propose la creazione di una specie di “sacerdozio atomico“ con il compito di tramandare la conoscenza dei luoghi e dei pericoli delle scorie radioattive attraverso rituali e miti, in maniera simile alla chiesa cattolica. Altri due semiologi, l’italiano Paolo Fabbri (1939 – 2020) e Françoise Bastide hanno avuto un’idea ancora più fantasiosa, che qualche hanno fa è stata ripresa e raccontata in un documentario: usare gatti geneticamente modificati in grado di cambiare colore in presenza di radiazioni, un po’ come contatori Geiger viventi (The ray cat solution). Altri ancora hanno pensato di affidare all’architettura il compito di “fare la guardia” ai depositi di scorie: attraverso costruzioni dall’aspetto minaccioso come, per esempio, giganteschi spunzoni di metallo che escono dal terreno. Anche le piramidi egizie, tuttavia, erano state pensate per rimanere eternamente inviolabili ma la curiosità ha prevalso e, oggi, il loro contenuto è esposto nei musei di tutto il mondo.
“Dal nostro punto di vista, il modo più efficace per segnalare la posizione di un deposito nucleare non è un singolo dispositivo ma un insieme di dispositivi”, racconta Jean-Noël Dumont, l’ingegnere a capo del progetto “Memoria” dell’Agenzia nazionale francese per lo smaltimento dei rifiuti nucleari (Andra). “Per mantenere viva la memoria, è essenziale consentire a ogni generazione di poter adattare e riprogettare i sistemi con cui viene trasmessa. Stiamo lavorando su archivi stampati su supporti durevoli come la “carta permanente“, che dura più di 5 secoli in condizioni di archiviazione standard, e su materiali con durate anche più lunghe (ceramica, zaffiro…). Stiamo anche conducendo ricerche in collaborazione con le università per aumentare sempre di più l’efficacia dei nostri sistemi di trasmissione della memoria: con messaggi che possono essere compresi anche dopo la scomparsa delle lingue attuali, attraverso l’uso combinato di pittogrammi, testi in varie lingue, suoni o anche piccoli segnali che possono essere sepolti vicino a un deposito geologico profondo e riapparire progressivamente nel corso di secoli o millenni”.
Meglio il silenzio?
Una soluzione definitiva, tuttavia, non è ancora stata trovata e, proprio per questo, c’è anche chi sostiene che non valga la pena cercarla: meglio lasciare che i depositi vengano dimenticati. È un po’ quello che si è deciso di fare in quello di Onkalo che, intorno al 2100, quando sarà ormai pieno, dovrebbe essere sigillato con blocchi di roccia, ricoperto da una foresta e lasciato all’oblio.
“Senza dubbio, la prima cosa da fare è costruire depositi davvero sicuri, che possano durare 10.000 anni e più. Sappiamo tutti, però, che nascondersi non è mai una garanzia per non essere scoperti”, continua Dumont. “Noi stiamo facendo del nostro meglio per mantenere la consapevolezza del deposito il più a lungo possibile, in modo da evitare intrusioni involontarie per almeno 5 secoli, come richiesto dai regolamenti in Francia. Dopo 500 anni, però, la pericolosità delle scorie si sarà fortemente ridotta ed è illogico scommettere sulla memoria continua. Il rischio dell’oblio va sempre calcolato. Ma questo non significa che lo promuoviamo!”.