Le capacità di ripresa delle piante offrono sempre qualche sorpresa. A quasi cinquant’anni di distanza le orchidee ora fioriscono nella Zona A di Seveso, l’area più colpita dalla nube di diossina nell’estate del 1976. In un ambiente ancora più estremo, il geosito della Mefite in provincia di Avellino, si è fatta strada una ginestra che non risente delle concentrazioni record di anidride carbonica e acido solforico. La scarsa competizione con altri concorrenti e il relativo isolamento fisico di questi habitat tossici, o con un passato problematico, favoriscono quelle piante che tollerano veleni e catastrofi. Esempi che richiamano il fenomeno dell’Hibakujumoku, espressione giapponese con cui si indicano tutti gli alberi sopravvissuti ai bombardamenti atomici, o le foreste che si sono sviluppate nell’area della centrale nucleare di Chernobyl. In Italia ce ne sono diversi: dalla sequoia gigante del Vajont al pioppo nero di Seveso, l’unica pianta rimasta in piedi dopo l’incidente allo stabilimento dell’ICMESA a Meda.
Il pioppo nero di Seveso è stato il simbolo di rinascita dell’area che, dopo le opere di bonifica, viene recuperata nel 1984 con un progetto di parco naturale di quasi cinquanta ettari. L’intero strato superficiale del terreno della zona è stato sostituito con materiale proveniente da zone non contaminate. Oggi si chiama Bosco delle Querce, ospita circa cinquantamila tra alberi, arbusti e piante che sembrano emergere da un passato remoto. Come le due orchidee scoperte di recente: la Cephalanthera longifolia e la ancora più rara Cephalanthera damasonium. Tra qualche giorno sarà firmato l’accordo di custodia per proteggere queste due specie nel Parco all’interno del progetto europeo LifeOrchids coordinato da Università di Torino e Legambiente Lombardia.
“Queste orchidee sono tra le ultime specie autoctone degli ambienti planiziali cresciute in forma spontanea nel Bosco. – spiega Lia Mantegazza, docente della Scuola Agraria di Limbiate che ha partecipato a diversi progetti di ricerca nel Parco – L’intero parco oggi sembra evolversi verso quella forma di habitat naturale che si chiama Querco-Carpineto che dominava il paesaggio dell’alta pianura padana prima dell’urbanizzazione”.
Per sicurezza alcuni esemplari della Cephalanthera longifolia sono stati trasferiti in vaso e portati all’Orto botanico Città Studi per la conservazione ex-situ. È come se gli scavi e gli interventi di bonifica, ma questa è solo un’ipotesi, abbiano in parte riportato alla luce ambienti preesistenti che erano sepolti nel sottosuolo da centinaia di anni. Lo dimostrerebbe anche la fatica che fanno nel Parco alcuni alberi, questa volta trapiantati dall’uomo, come la betulla e il frassino. Le due orchidee di Seveso non sono nemmeno presenti nelle aree naturali limitrofe come il Parco delle Groane e lo stesso discorso vale per la lingua cervina (Phyllitis scolopendrium), una felce che ha colonizzato i tombini.
Le Cephalanthera del Bosco delle Querce non sono comunque le uniche in Italia di questa famiglia a prediligere quelle che ormai sembrano rovine dell’attività industriale: ci sono anche altre orchidee che popolano i terreni di scarto nelle miniere dismesse di zinco e piombo a Domusnovas in Sardegna. Ma il grado di peso massimo nella questa categoria di piante degli ambienti tossici spetta a una popolazione di ginestra minore (Genista tinctoria) che ha colonizzato il Mefite della valle d’Ansanto, un’antica sorgente naturale di anidride carbonica a altri gas letali già citata da Virgilio nell’Eneide. Sul perimetro di questo geosito, che non è di origine vulcanica, non è raro trovare carcasse di animali morti e le esalazioni sono fatali anche per l’uomo.
Secondo un recente studio dell’Università di Napoli Federico II pubblicato sull’ultimo numero della rivista Botanical Journal of the Linnean Society, le barriere fisiche e l’isolamento geografico hanno probabilmente favorito la nascita di un ecotipo, ovvero una pianta adattata a questa atmosfera avvelenata dove certo sopravvivono anche altre piante, ma molto più piccole, e diversi batteri. Ma questa ginestra ha una marcia in più perché sembra rifiutare a priori qualsiasi ambiente addomesticato: quando ne hanno trasportato alcuni esemplari all’orto botanico sono tutti morti.