Minacciata dalla crisi climatica, in un equilibrio costantemente precario con l’uomo, con il quale la convivenza è spesso complicata, la fauna selvatica vive, oggi, una sfida conservazionistica sempre più impegnativa. Nel giorno in cui il mondo celebra il World Wildlife Day, la Giornata mondiale della fauna selvatica promossa a livello internazionale dalle Nazioni Unite a partire dal 2013 proprio per celebrare fauna e flora del Pianeta e il contributo fondamentale che le specie selvatiche danno alla nostra vita e alla salute degli ecosistemi, diventano così ancor più attuali le criticità che riguardano il mondo animale nell’Antropocene. La perdita progressiva di biodiversità, con i numeri fotografati nel corso della Cop16 di Roma – si traduce in un milione di specie a rischio estinzione nel mondo e in 58 ecosistemi a rischio nella sola Italia, complice la distruzione, la degradazione e la frammentazione degli habitat. A fare, seppure in parte, da contraltare è tuttavia l’aumento significativo dei grandi carnivori nell’Europa continentale, grazie anche all’effetto delle politiche di conservazione introdotte nei decenni scorsi: oggi ci sono 20.500 orsi bruni in Europa, con un aumento del 17% dal 2016, e 9.400 linci eurasiatiche (+12%.). E ancora: è aumentata del 35% anche la popolazione di lupi selvatici (stimati 23 mila esemplari).

Addirittura più significativa la performance degli sciacalli dorati, le cui popolazioni sono aumentate del 46% dal 2016. Luigi Boitani, professore di Zoologia alla Sapienza di Roma, è tra i massimi esperti in Italia di ecologia animale e profondo conoscitore della fauna selvatica: il suo è un approccio diretto, privo di fronzoli.
Partiamo dalle note dolenti: quanto stiamo perdendo, in termini di biodiversità della fauna selvatica, in questi anni?
“Le statistiche sono tutte profondamente negative. Molte popolazioni vanno rarefacendosi, ancor prima che l’Iucn lanci il suo alert, inserendole nella categoria di minaccia critica. E la tendenza più negativa riguarda i paesi in via di sviluppo, dove prosegue inesorabile la galoppante corsa alla distruzione degli ambienti naturali, in particolar modo delle foreste tropicali, da sempre hotspot di biodiversità. Sostituire habitat naturali con habitat antropizzati ha un effetto devastante, e i maggiori indiziati sono l’agricoltura sulla terraferma e la pesca industriale negli oceani. E sa cosa fa più male?”.
Ci dica, professore.
“La consapevolezza che molte specie selvatiche stanno per scomparire ancor prima di averle descritte: del resto, ne abbiamo descritte appena 2 milioni sugli 11 milioni stimati. E i mammiferi sono quelli messi meglio ma sono un gruppetto piccolissimo, appena 6000 specie: tra i vertebrati, i dati più inquietanti riguardano gli anfibi”.
Cosa può fare la ricerca?
“Quello che già fa regolarmente, pubblicando tutte le settimane resoconti e studi esaustivi sul rischio in atto, basta spulciare su Science o Nature. Ma il nostro allarme per l’impatto della perdita di biodiversità è spesso inascoltato. E non è un caso che la politica italiana abbia disertato, a quanto leggo, la Cop16 di Roma sulla biodiversità”.
A fronte di questi numeri critici, assistiamo all’incremento dei carnivori in Europa, un fenomeno che pone una serie di questioni ancora irrisolte, a cominciare dagli effetti indesiderati sull’attività umana e sullo stesso uomo. Come bisogna porsi?
“Anzitutto, la decisione di convivere o meno con i grandi carnivori è soprattutto politica, non è certo dettata dalla ricerca scientifica. Si può scegliere di percorrere la strada del compromesso, o optare per l’eradicazione di uno dei due contendenti, che sono, per l’appunto, gli uomini e gli animali. Noi ricercatori forniamo dati e disegniamo scenari, ed è questo il nostro ruolo: fornire ai decisori strumenti adeguati per raggiungere un obiettivo, che sia l’eradicazione di una specie o il raggiungimento di un soddisfacente compromesso. Deve però essere chiaro che la logica del compromesso prevede che entrambe le parti rinuncino a qualcosa: l’uomo, per esempio, accetta di sostenere il costo di un certo numero di danni dalla fauna selvatica, che siano pecore mangiate da lupi o pesci dai cormorani, com’è nella natura delle cose. E d’altra parte si accetta che, fermo restando l’obbligo di mantenere tutte le specie in condizioni di conservazione favorevole, le popolazioni di carnivori siano gestite anche con qualche rimozione di esemplari troppo dannosi. È la dinamica della convivenza nella stessa casa. Del resto, non ha molto senso parlare di natura selvaggia in un continente, l’Europa, popolato da 500 milioni di persone”.
Ma perché l’opinione pubblica è, spesso, così polarizzata?
“Perché soffriamo il dualismo tra chi vive la città, e coltiva un’idea della natura idealizzata, e chi invece vive nella dimensione rurale, e ha una visione meno idilliaca, principalmente orientata allo sfruttamento delle risorse e al ritorno economico. E questi sono tempi in cui il dualismo anziché ricongiungersi va allargandosi, spaccando la opinione pubblica su due opposti fondamentalismi, spesso rinforzati dalla incapacità di dialogo e l’ignoranza. Da un lato e dall’altro, sia chiaro: gli animalisti, per esempio, hanno a cuore i singoli individui animali più che le dinamiche conservazionistiche di una specie”.
Ci parli dell’espansione del lupo, che interessa ormai tutta l’Italia e sempre più spesso lo si vede anche in zone urbanizzate.
“Un’espansione importante, quella del lupo, come conferma il nostro ultimo studio, prima autrice Cecilia Di Bernardi. Un’espansione di cui siamo in parte spettatori passivi ma che ha una spiegazione abbastanza semplice: il lupo si nutre di qualsiasi cosa commestibile. Se trova un cervo, il lupo sa fare il suo nobile lavoro di predatore, che piace all’immaginario collettivo, ma se si imbatte in cumuli di rifiuti on in pecore allo stato brado è in grado di adeguarsi. È anche grazie alla sua adattabilità che in Italia non si è mai del tutto estinto ed è per questo che oggi, in un continente così antropizzato, prolifera. In più, non ci sono mai state così tante prede potenziali: caprioli, cervi, cinghiali, persino le nutrie del Po. Non dobbiamo stupirci, in definitiva, se la sua presenza sia in costante aumento”.
E ora c’è chi auspica un intervento di contenimento delle popolazioni: due anni fa, in Svezia, ha fatto notizia l’abbattimento di 54 lupi, scatenando la furia degli ambientalisti e, viceversa, il plauso degli agricoltori e cacciatori locali, che li consideravano una minaccia.
“Anche qui, la decisione è politica. La Direttiva Habitat del 1992 prevede la protezione integrale del lupo, ma permette anche il prelievo di esemplari in regime di deroga con alcune precise condizioni. Negli ultimi 30 anni nessuna Regione ha mai chiesto la deroga che pure era possibile avere. Su questa base, pochi giorni fa l’Ispra ha inviato alle Regioni una proposta operativa che potrebbe prevedere, in deroga, prelievi contenuti. In generale, ci si avvicina a una una riduzione del livello di protezione della specie, che – pur nell’obbligo dei Paesi Ue di mantenere il lupo in condizioni favorevoli di conservazione – consenta di cacciarlo, soprattutto nei luoghi in cui la sua presenza causa eccessivo danno. Ma a scanso di equivoci sottolineerei che il lupo non è pericoloso per l’uomo: non ci sono storie di aggressioni, né è mai successo qualcosa, per esempio, ai due milioni di visitatori che esplorano in lungo e in largo il Parco Nazionale d’Abruzzo, del Lazio e del Molise. Una aggressione potrebbe comunque avvenire domattina e sarebbe nel novero degli incidenti che hanno una infinitesima probabilità di avverarsi ”.
Per l’orso il discorso cambia, secondo lei?
“Cambia, se non altro per le sue dimensioni: anche una sua carezza può far male. Ed è chiaro che se scegliamo la strada del compromesso, e non dunque quella dell’eradicazione, propria di chi immagina che la natura debba essere al nostro servizio, la soluzione può essere adottare strumenti utili per ridurre il danno alle greggi e minimizzare il rischio di quelli all’uomo. Come? Anche, ma non solo, rimuovendo gli orsi problematici, che in definitiva sono un numero molto piccolo. Lo so: fa male e dispiace. Ma è, ribadisco, la logica del compromesso: c’è quindi da chiedersi quanto si sia davvero disposti ad adottarla”.