Si stima che 63 milioni di salmoni sono prematuramente morti nel 2023 nei grandi allevamenti marini della Norvegia. Un tasso di mortalità record (il 16,7%) che getta nuove ombre sul consumo globale del pesce, apprezzato per i suoi acidi grassi Omega-3, e sull’acquacultura, che da tempo è il settore di produzioni animali con la più rapida crescita a livello globale, al punto da aver triplicato la sua produzione nell’ultimo ventennio. Con una previsione emblematica: nel 2030 il 62% del pesce destinato al consumo umano sarà di allevamento. Ecco perché ridurre il suo impatto sul Pianeta è prioritario.

L’ultimo allarme arriva da uno dei paesi leader nell’allevamento dei salmoni ed è amplificato dalle parole di Edgar Brun, direttore del settore Salute e benessere degli animali acquatici presso il Norwegian Veterinary Institute di Oslo. “Una morte così massiccia di animali rappresenta uno spreco di vite e risorse, abbiamo anche la responsabilità morale ed etica di garantire loro le migliori condizioni possibili”, dice. Soccombono, i salmoni, a causa di malattie del pancreas, delle branchie o del cuore, oppure a lesioni subite durante l’eliminazione dei parassiti come i pidocchi di mare.


E nella grande distribuzione, denunciano i media norvegesi, finiscono pesci in pessime condizioni di salute al momento della macellazione, o addirittura già morti. Riecheggia la denuncia che Laila Sele Navikauskas, già responsabile del controllo qualità in un’azienda specializzata nella macellazione del salmone, aveva rilasciato all’emittente pubblica NRK: “Vedo in vendita pesce che io stessa non mangerei“.

Longform

“Salvate il salmone selvaggio”

di Paola Rosa Adragna

Secondo l’Autorità norvegese per la sicurezza alimentare sarebbero state riscontrate anomalie nella metà degli allevamenti ittici ispezionati lo scorso anno: in particolare, esce ferito o deformato destinato all’esportazione, in violazione delle normative vigenti. E i produttori? Robert Eriksson, numero uno della Norwegian Seafood Association, che rappresenta le piccole realtà, che generalmente sono considerate meno colpevoli, definisce “totalmente inaccettabili” le irregolarità riscontrate. “Abbiamo bisogno di più tempo per risolvere la questione”, ha invece detto Geir Ove Ystmark, presidente della Norwegian Seafood Federation, la sigla che rappresenta le grandi aziende di piscicoltura. “Abbiamo già lanciato una serie di iniziative e misure, ma un salmone vive in media tre anni e i risultati saranno apprezzabili nel medio termine”.

“Stipati in gabbie sovraffollate, dov’è il benessere animale?


Annamaria Pisapia dirige la sezione italiana di Compassion in World Farming, la maggiore organizzazione internazionale per il benessere degli animali da allevamento. “Che l’allevamento di salmone sia uno con i più alti tassi di mortalità, purtroppo, è un fatto risaputo che non sorprende – ci dice – I salmoni allevati passano la loro vita stipati in gabbie sottomarine e sovraffollate: in genere, lo spazio riservato a un singolo esemplare – in media lungo 76 centimetri – è quello di una vasca da bagno. A questo si aggiunge che le acque in cui nuotano sono putride, piene di sostanze chimiche, residui di cibo e feci. In più, i salmoni si feriscono a contatto con le superfici abrasive e le parti delle gabbie. Tutto questo contribuisce alla formazione di un sistema immunitario indebolito, e all’esposizione a malattie e infestazioni. Si potrebbe aprire un intero capitolo sui pidocchi di mare, che si nutrono della pelle, del sangue e del muco di questi pesci. E la cui ‘cura’ è l’ennesima fonte di sofferenza per gli animali, sottoposti a trattamenti con temperature anche di 20 gradi più elevate a quelle a cui sono abituati. E a cui a volte non sopravvivono”.

 


Compassion in World Farming non crede negli allevamenti virtuosi. Comprese le realtà meno industriali, più piccole: “Le problematiche di benessere che troviamo nei grandi allevamenti sono comuni a tutto il settore, che lavora secondo gli stessi standard, e quindi non c’è garanzia che ‘piccolò voglia dire ‘buono’. – spiega Pisapia – Negli anni abbiamo visto un forte accentramento della produzione di carne di salmone, con l’aumentare dei grandi allevamenti. Oggi l’allevamento di salmoni è, ovunque, un sistema altamente industrializzato che dipende dall’utilizzo di mangimi commerciali, e quindi intensivo. Non ne esistono ‘estensivi’. – spiega Pisapia – Anzi, il rischio è che si vada incontro a un’ancora maggiore intensificazione con la diffusione del sistema di acquacoltura a ricircolo, che permette di aprire allevamenti ovunque sia possibile costruirne le strutture. Si tratta – spiega – di sistemi che sono impianti a terra che si basano sull’utilizzo di vasche spoglie, prive di qualsiasi arricchimento ambientale, e sono molto costosi da realizzare. La conseguenza è facile da immaginare: per compensare i costi si aumenta la produzione, con densità altissime di allevamento. Se i salmoni allevati in Scozia sono tenuti a una densità di 15 chilogrammi di pesce per metro cubo, in questi sistemi la densità standard è di 80 per metro cubo: è come se in una vasca siano stipati ben quattro esemplari, e non uno”.

Il costo per l’ambiente dell’alimentazione e i nuovi spiragli


C’è inoltre la questione, non marginale, dell’alimentazione. “Il salmone è un pesce carnivoro, il che significa che il mangime utilizzato per alimentarlo è principalmente composto da farina e olio di pesce ottenuti dalla pesca di specie selvatiche. – spiega la dirigente di Ciwf – Si stima che per nutrire un singolo salmone siano necessari ben 440 pesci catturati, molti dei quali potrebbero essere destinati al consumo umano diretto. Un vero paradosso”. Eppure qualche spiraglio ci sarebbe: “Da una decina di anni si osserva una riduzione della percentuale di farina e di olio di pesce nelle diete destinate ai pesci carnivori, sostituite in gran parte da fonti vegetali, cereali e semi oleosi”, annota Roberto Cerri, biologo marino esperto in acquacoltura e nutrizione dei pesci. Una evoluzione nella dieta del salmone d’allevamento in nome (anche) della sostenibilità. Già, ma basterà?


Con un maggiore rispetto delle regole, l’acquacoltura potrebbe rivelarsi una risorsa preziosa. Basterebbe, in fondo, seguire con più attenzione le Linee guida strategiche per un’acquacoltura europea più sostenibile e competitiva per il periodo 2021-2030. “Del resto il prodotto di allevamento ha il vantaggio di essere sempre tracciabile, contribuisce a ridurre la pressione di pesca e le diete sono sempre più indirizzate su prodotti vegetali e sottoprodotti avicoli e dell’industria della pesca, anche in un’ottica di economia circolare. – argomenta Angela Trocino, docente di Seafood Sustainability e Production and Control all’Università degli Studi di Padova. – In più le fasi pre-macellazione e macellazione in allevamento sono gestite per ridurre la sofferenza degli animali anche perché esiste una correlazione con la qualità del prodotto e, nello specifico, con l’evoluzione della freschezza. Anzi, lo stress sofferto dagli animali durante l’allevamento e al momento della macellazione determina una più rapida evoluzione dei processi biochimici post-mortem e un più rapido deterioramento del prodotto“.