Più della metà del pianeta è una miniera di minerali preziosi ed è nascosta in una sorta di “terra di nessuno”: gli abissi degli oceani. Un luogo su cui l’occhio globale non arriva ed è un rischio. Per tutti. La scienza è chiara. “Bisogna fermare la nuova corsa all’oro in atto tra le grandi potenze per accaparrarsi le miniere inesplorate nei fondali degli oceani. Il Trattato per la protezione dell’Alto mare è l’unico strumento per fermarli. Dobbiamo proteggere almeno una parte di quella superfice terrestre che è la zona più estesa del pianeta: l’oceano. Un bene che è non soltanto di proprietà dei paesi che hanno la tecnologia per sfruttarli, ma è di tutti”. Così Roberto Danovaro docente e presidente della Stazione Zoologica Anton Dohrn, Istituto Nazionale di Biologia, Ecologia e Biotecnologie marine commenta la ripresa alle Nazioni Unite a New York dei negoziati per trovare un accordo e siglare finalmente il Trattato per la protezione dell’Alto Mare. Per mettere in sicurezza almeno quel 30% di oceani, considerata la soglia minima dagli scienziati per non imboccare la via di non ritorno. “È in gioco il destino della Terra, non solo della biodiversità. Entro il 2030 dobbiamo creare una rete globale di aree marine protette e tutelare il più possibile i fondali marini, ricchi di materie prime preziose. Se non vogliamo che quella diventi la terra di nessuno. È l’ultima occasione”. Parole chiare quelle del professor Danovaro.
Il negoziato: occhi puntati su New York
Attualmente solo l’1,2% degli coeani è sotto protezione totale. Il 70% è considerato Alto Mare, una sorta di ultima zona selvaggia del pianeta, quella a 200 miglia dalla costa, al di fuori della giurisdizione dei singoli paesi. La vita marina che vive in queste zone è a rischio di sfruttamento, estinzione ed è vulnerabile alle crescenti minacce della crisi climatica, della pesca eccessiva e del traffico marittimo. L’accordo per la sua tutela è in fase di negoziazione da anni alle Nazioni Unite, perché gli Stati Membri non sono ancora riusciti a trovare un equilibrio tra “chi spinge” e “chi frena” per firmarlo. Il motivo? Ci sono troppi interessi negli abissi degli oceani. Ad agosto 2022 la Conferenza intergovernativa sulla biodiversità marina delle aree al di là della giurisdizione nazionale (BBNJ) era stata interrotta ad un passo dall’accordo. L’obiettivo era di invertire il trend di declino della salute dell’oceano e della perdita di biodiversità per le generazioni future e per le popolazioni costiere che dipendono dal mare come fonte di cibo, sostentamento e reddito. Tutto confermato a dicembre a Montreal alla Conferenza mondiale sulla Biodiversità.
“Aver fissato l’obiettivo del 30% di tutela del mare entro il 2030, ma senza adottare azioni conseguenti, fa in modo che quegli obiettivi non significano nulla”, spiega Danovaro. Rincarano gli ambientalisti di Greenpeace: “Il fatto che si tenga una sessione speciale a pochi mesi dalla sospensione formale dei negoziati è un buon segnale e se il 3 marzo sarà firmato un Trattato forte allora l’obiettivo 30×30 sarà ancora a portata di mano. Auspichiamo che i governi trovino i compromessi necessari per arrivare ad un trattato efficace: siamo già ai tempi supplementari e non possono fallire”. L’obiettivo ora è quello di rendere il trattato legalmente vincolante.
Perché il Trattato è importante
L’Alto Mare è l’area che si trova al di là della Zona Economica Esclusiva (ZEE) nazionale – oltre le 200 miglia nautiche dalla costa – e occupa circa due terzi dell’oceano. Un contesto che la rende particolarmente vulnerabile visto che nessun governo si assume la responsabilità della protezione e della gestione sostenibile delle risorse di Alto Mare: si tratta di acque internazionali e quindi al di fuori delle giurisdizioni nazionali, in cui tutti gli Stati hanno il diritto di pescare, navigare e fare ricerca. Di conseguenza, alcuni degli ecosistemi più importanti del pianeta sono a rischio, con conseguente perdita di biodiversità e habitat: tra il 10% e il 15% delle specie marine è già a rischio estinzione.
Il tesoro degli abissi
Ma il problema non è solo la tutela della biodiversità. Spiega il professor Danovaro: “L’interesse delle compagnie minerarie si sta spostando sui depositi situati nei fondali oceanici: una riserva immensa che potrebbe essere sfruttata pagando un altissimo costo ambientale. Negli ultimi decenni l’avanzare della tecnologia hanno reso l’Alto Mare sempre più accessibile e, di conseguenza, le sue risorse. Quella miniera di materie prime che si trovano tra i 4-5 mila metri di profondità sempre più facilmente estraibili. Per questo motivo è in corso una vera e propria corsa all’oro sui fondali.
Un esempio? In Oceania nelle Alte Acque, sono partiti alcuni test di estrazione di minerali in acque profonde da parte di una sola nazione. Si è trattato di una fase sperimentale, eppure sono stati utilizzati mezzi cingolati e con rastrelli larghi 12 metri hanno arato i fondali degli oceani estraendo i cosiddetti noduli polimetallici. A vederli sono sassolini scuri non più grandi di un uovo, ma sono preziosi e ci vogliono milioni di anni per formare quell’insieme di minerali. Contengono manganese, ferro, nichel, cobalto, rame, titanio, molibdeno, i noduli si formano attraverso un processo estremamente lento. Di noduli polimetallici, solo per il periodo del test, sono stati riempiti i serbatoi della nave. Valore di quelle materie prime: dai 3 agli 8 miliardi di euro. Ecco di cosa parliamo quando diciamo di mettere in sicurezza i fondali degli oceani. A chilometri di distanza dalle coste la distrazione è globale”. Come essere andati a cercare funghi in un bosco utilizzando un caterpillar. “Sì, perché il dragaggio del fondale ha un impatto ambientale devastante non solo sugli organismi che vivono su quell’area, ma anche nei dintorni, per via del sollevamento di sedimenti che coprono e uccidono altri organismi. Così mentre i vantaggi sono solo dei governi che possiedono la tecnologia, i danni ambientali ricadono su tutti noi”, sottolinea Danovaro. “Solo le Nazioni Unite possono intervenire perché questa parte di crosta terrestre non sia di tutti noi. E poi, non dimentichiamo che non proteggere gli oceani significa aumentare il divario globale tra paesi poveri e ricchi”.
Cosa prevede il Trattato
Uno degli obiettivi del Trattato per la protezione dell’Alto Mare è quello di tutelare il 30% dell’oceano attraverso la creazione di una rete di Aree Marine Protette. Inoltre, prima di autorizzare attività commerciali in Alto Mare, come l’estrazione di minerali e risorse in acque profonde, si dovranno effettuare valutazioni di impatto ambientale. Infine, la tutela della biodiversità marina e delle specie migratorie; la gestione della ricerca di risorse genetiche marine che possono avere un valore commerciale o scientifico per lo sviluppo di farmaci, vaccini e altre applicazioni farmaceutiche e chimiche; la condivisione dei beni comuni; i benefici legati alle nuove tecnologie.
Peter Thomson, Inviato Speciale delle Nazioni Unite per l’Oceano spera nella riusicta del negoziato: “Dopo i grandi successi ottenuti per la salute dell’oceano grazie all’Assemblea dell’Ambiente delle Nazioni Unite a Nairobi dedicata all’inquinamento da plastica in mare, alla Conferenza ministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio di Ginevra dedicata all’esclusione di sussidi a metodologie di pesca dannose e alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’Oceano di Lisbona, sono fiducioso che gli Stati Membri cavalcheranno l’onda positiva del 2022 verso la tutela della salute dell’oceano concludendo un trattato per l’Alto Mare a New York. Questo mese”