Le terre emerse di Grado sono la linea di confine tra laguna e mare aperto. Quella striscia all’orizzonte che compare e scompare a seconda delle maree, che qui si manifestano in tutta la loro evidenza, può essere approdo o partenza, baluardo sicuro per rimanere al tepore dell’acqua bassa della laguna, guardando la città e il suo campanile, oppure nuova riva da lasciare alle spalle per cominciare a nuotare nel mare che si allarga e diventa profondo.
Qui, alle terre emerse, che geograficamente si connotano come “Mula di Muggia”, si arriva in canoa, in sup, in kite, in surf, o, se la stagione è bella, semplicemente nuotando. Ma quelle terre sfuggenti non si lasciano conquistare. Non sono di nessuno. O forse solo dei gabbiani. Perché ad un certo punto cominciano a ridursi, a tagliarsi in pezzi più piccoli, rosicchiati dall’acqua che avanza, fino a tornare invisibili. Stare lì, fissare il nuovo orizzonte, godere il suono delle piccole onde che si rincorrono sulla riva, sentire in solitudine la brezza e il sole sono piaceri intensi, ma fugaci, un possesso breve.
Gli isolani, perché Grado è un’isola, nonostante il terrapieno costruito nel 1936 che da allora la unisce alla terraferma, hanno imparato bene cosa vuol dire convivere con la mutevolezza delle cose. Il meteo, che spesso ti accarezza e ti culla, ma ti può anche strapazzare con il borino nei pomeriggi d’estate, o addirittura prenderti a sberle d’inverno con la bora che fischia forte e alza il mare. Le case ricavate dalle spesse mura della città storica, dove troneggia il campanile della basilica di Sant’Eufemia, testimoniano questa necessità di proteggersi dal meteo avverso con le finestre piccole e rade. E la grande diga costruita nell’800 dagli Asburgo ancora protegge i gradesi dalle distruttive mareggiate.
Ma appena cala il vento, i gradesi sono lì, nell’acqua bassa bassa, inverno o estate che sia, davanti alla Mula di Muggia a pescare le cappelunghe (capelonghe, come le chiamano loro) con i ferri tirati fuori dalla cantina, tramandati di generazione in generazione, che è ancora possibile comprare dal ferramenta. “Paese mio, picolo nio e covo de corcali, pusào lisiero sora un dosso biondo, per tu de canti ne faravo un mondo e mai no’ finiravo de cantali”, (“Paese mio, piccolo nido e covo di gabbiani, posato leggero sopra un dosso biondo, per te di canti ne farei un mondo e mai non finirei di cantarli”), scriveva della sua Grado il poeta Biagio Marin.
Come l’acqua e il cielo, anche la storia di Grado è all’insegna della continua mutevolezza: porto romano, rifugio degli abitanti della vicina Aquileia rasa al suolo dagli Unni e dal loro Attila, potente patriarcato prima in armonia e poi in lotta con la stessa Aquileia, enclave veneziana, dominio asburgico fino al termine della prima guerra mondiale, vacanza elegante dell’aristocrazia austriaca che in Grado aveva la sua “isola del sole”. E’ tutto scritto nel tessuto urbanistico della città. Un tessuto che però si evolve e lo fa nel rispetto del turismo sostenibile e della qualità della vita.
Perciò, una volta arrivati a Grado, è più che naturale dimenticarsi dell’auto e spostarsi in bicicletta. Le piste ciclabili sono ovunque, dentro e fuori la città. E ce ne sono due che vale la pena di esplorare per comprendere lo stretto legame di Grado con il suo territorio. Prima di tutto la ciclovia Alpe Adria Radweg, realizzata dalla Regione Friuli Venezia Giulia nell’ambito di un progetto europeo transfrontaliero. Infatti arriva fino a Salisburgo. Il tratto italiano parte da Tarvisio, sulle Alpi, passa per Venzone, Udine, Palmanova, Aquileia e raggiunge il mare di Grado. Dunque, pedalando da Grado, in appena 10 km, si arriva ad Aquileia, fondata dai romani nel 181 a.C. come avamposto contro le incursioni dall’Est e poi porto fluviale strategico, legato a filo doppio al porto marittimo di Grado. Anche se gli Unni la rasero al suolo, resistono ancora i resti del foro e del porto romano, di una domus del I-II secolo dopo Cristo, della residenza vescovile del IV secolo e soprattutto intatta nella sua imponenza c’è la basilica, con il suo battistero. Nella basilica, quella giunta a noi risale all’XI secolo, è stato riportato alla luce il pavimento a mosaico della prima costruzione, voluta dal vescovo Teodoro nel 313, stesso anno dell’editto di Costantino, che proclamò per i cristiani la libertà di culto. E qui tutto il repertorio della simbologia cristiana, dai pesci ai pavoni, emana il suo potere ipnotico.
L’altra ciclovia è l’Adria bike, anche questa realizzata dalla Regione Friuli Venezia Giulia nell’ambito di un progetto europeo che ha coinvolto 21 partner e che nel suo itinerario completo si sviluppa da Tarvisio, entra in Slovenia, raggiunge Capodistria, tocca Trieste, Venezia e infine Ravenna costeggiando l’Adriatico. Qui, la parte che ci interessa è quella che da Grado arriva fino a Punta Sdobba, alla foce dell’Isonzo. Per un lungo tratto si pedala lungo la costa, nella parte più selvaggia di Grado. E si vedono chiaramente Trieste, Muggia, i profili del Monte Nanos, Tajano, Maggiore, giù giù fino all’Istria. Si entra nel cuore della riserva della Val Cavanata, dove la ricchezza sono gli aironi e i fenicotteri rosa. E si arriva ad un microborgo, Punta Sdobba, dove i pescatori hanno imparato a convivere con le nuvole di zanzare che non danno mai tregua. Fino all’Isonzo. E qui si apre un’altra storia.